Torino Jazz Festival, la parola "jazz" e la voglia di ballare
Il Torino Jazz Festival chiude alla grande con Salif Keita, Donny McCaslin e Arto Lindsay
Si potrebbe partire dalla fine per raccontare il lungo weekend che ha chiuso il Torino Jazz Festival, ovvero dal concerto domenicale di Salif Keita, con il pubblico lacerato nella scelta: cedere alla voglia di ballare o rispettare le rigide regole di distanziamento? Ed è quasi commovente osservare alcuni dei presenti: prima applaudono a tempo, poi cominciano ad ancheggiare da seduti, poi infine, complice un passaggio particolarmente coinvolgente, si alzano – «No non devo farlo… Devo... resistere!»... Va a finire nel migliore dei modi possibile, con tutta la sala delle OGR che balla, ciascuno davanti alla sua sediolina nel pieno rispetto del DPCM vigente.
Cedere alla voglia di ballare o rispettare le rigide regole di distanziamento?
Era quasi naturale che il tema del Torino Jazz Festival – al quale è toccato re-inaugurare la stagione dei grandi eventi a Torino – fosse quello del ritorno ai concerti dei musicisti, categoria tra quelle più penalizzate dalle norme di sicurezza. Ma Salif Keita ci ha ricordato, di colpo, della voglia del pubblico: sala piena anche nella replica del pomeriggio (quella a cui ho assistito io) con un pubblico che non era quello “solito” dei concerti cittadini, con molte famiglie con bimbi piccoli e molti torinesi di origine africana. Il vecchio leone Keita, evidentemente, ancora esercita un certo fascino (e un aiuto lo danno anche i torinesi Korabeat, bel progetto italo-senegalese con Cheick Fall e Gianni Denitto che apre entrambi i set, e che pure intercetta un pubblico di locals molto affezionato).
Keita, che è stato uno dei divi dell’epoca d’oro della world music, vive ormai di rendita sulla sua grandezza ma confeziona uno show irresistibile. Ha rinfrescato giusto un po’ gli ingredienti della sua miscela, togliendo la batteria e lasciando ampio spazio ai sequencer e alle drum machine pilotate da Cisse Abou (con la pulsazione principale affidata ai potenti bassi del calabash, la mezza zucca che risuona in tanta musica del Mali e dei dintorni). Per il resto, con un gruppo quadratissimo sul groove, che non perde un colpo, il classe 1949 Keita può aggirarsi per il palco con uno stile da umarello, accennando qualche passo di danza o fermandosi semplicemente a fissare i lavori in corsi (salvo poi riscuotersi di colpo per chiamare un’uscita o un assolo). Set stringato – meno di un’ora – ma, appunto, impossibile da non ballare.
– Leggi anche: Robert Henke, scienza e magia dell'elettronica
Se Keita non fa trasparire l’emozione per il ritorno ai concerti (d’altronde ne ha viste tante, il vecchio leone…) il sentimento domina un altro concerto memorabile di questo Torino Jazz Festival (almeno tra quelli che sono riuscito a vedere), ovvero il quartetto di Donny McCaslin, in una produzione originale del TJF con la cantante e bassista (qui alla chitarra acustica) Gail Ann Dorsey – ovvero, un ricostituito pezzo del gruppo di lavoro dietro a Black Star di David Bowie e una delle sue collaboratrici di più lungo corso.
Oltre al leader, a quel disco aveva partecipato anche il tastierista Jason Lindner. È lui il vero protagonista delle musiche di McCaslin, grazie a un originalissimo uso di sequenze e arpeggiatori che colorano il tutto di un’elettronica che – e lo si dice con l’intento di fare un grande complimento – nulla ha di quell’attitudine muscolare e fusionara che poteva morire negli anni novanta (nessuno l’avrebbe rimpianta) e che invece sta tornando di gran moda negli ultimi tempi. Qui siamo piuttosto a un aggiornamento di certe atmosfere cosmiche fondate sulla ripetizione di cellule, sull’incastro ritmico, che peraltro sembrano pure gettare un ponte con certe cose vecchie di Bowie. Il cerchio dunque si chiude tanto nei nuovi brani del quartetto, presentati per la prima volta dal vivo, quanto nelle riprese Black Star (“Lazarus”, emozionante) e del vecchio repertorio (“Look Back in Anger”).
Il gruppo è completato dal basso di Ryan Dahle e dalla batteria di Nate Wood, anche protagonista di un doppio set pomeridiano in solo, con il suo progetto fOUR, in cui suona tutto insieme, senza loop, batteria, basso e sintetizzatori, oltre a cantare. Wood è un fenomeno, ma il giochino è divertente per i primi 10 minuti, poi si avvita in un math-rock un po’ troppo ripetitivo (il pubblico però apprezza).
Almeno un cenno per un altro dei grandi eventi in cartellone, ovvero Arto Lindsay con la sua band. Lindsay (che sta in realtà girando in Italia con un altro progetto, dedicato a Dante, di cui abbiamo parlato qui) ripropone i suoi classici, intesi sia come repertorio di brani sia di gesti e trovate. Su tutte, l’ingresso in solitaria e la Danelectro azzurra 12 corde maltrattata e grattuggiata come contrappeso alla saudade tutta brasiliana del suo canto. Le operazioni di questo genere possono funzionare o non funzionare, rapire o non rapire: c’entra il mood di chi le compie e di chi ascolta, oltre al contesto in cui avvengono. Stregato da passate esibizione di Lindsay questa volta – per colpa sua o mia, non saprei – non ci sono entrato. Anche con l’arrivo della band il concerto parte moscio, salvo comunque decollare alla grande nell’ultima metà – dopo lo spazio di MCing che Lindsay concede a Kassa Overall, che nella sua band normalmente fa il batterista.
In ogni caso, è stato un bellissimo festival. C’è sicuramente da fare i complimenti alla direzione artistica e all'organizzazione per aver portato avanti produzioni originali complicate e per aver pianificato l’arrivo di gruppi e progetti “d’oltremare” in un momento storico in cui anche solo pianificare un viaggio in Liguria era una montagna da scalare.
In questo, il Torino Jazz Festival si è distinto dalla maggior parte dell’offerta estiva nazionale, che sembra invece aver abbracciato una tendenza del pre-pandemia affidandosi quasi in toto ai concerti di agenzia e “di giro”, con il risultato di mortificare la varietà dell’offerta e le identità delle singole rassegne. Un festival che punta su biglietti a prezzi popolari grazie a fondi pubblici e a sponsor pubblico-privati deve fare scelte originali, e offrire qualcosa che non si incontra normalmente; il TJF è sulla giusta strada.
Il Torino Jazz Festival si è distinto dalla maggior parte dell’offerta estiva nazionale, che sembra invece aver abbracciato una tendenza del pre-pandemia affidandosi quasi in toto ai concerti di agenzia e “di giro”, con il risultato di mortificare la varietà dell’offerta e le identità dei singoli festival.
Qualcuno a Torino ha criticato la preponderanza di concerti lontani dall’idea di jazz classicamente inteso per un festival che ha la parola “jazz” nel nome. È una cifra della direzione artistica di Giorgio Li Calzi e di Diego Borotti, così come lo è la convivenza in cartellone tra eventi più "classici" e “torinocentrici” (la presenza costante di eccellenze locali come Furio Di Castri, Emanuele Cisi, Fabrizio Bosso…) e altri più decisamente eccentrici (ad esempio, il fantastico live di Robert Henke).
È una doppia anima, che forse rispecchia anche la doppia direzione artistica e che – lo ammetto – non sempre mi convince, se pure ne comprendo le ragioni strategiche e politiche. In ogni caso, se c’è un problema (e io credo che in realtà non ci sia) sta più nella parola “jazz” che non in quello che decidiamo di metterci dentro.
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