Strauss e Mahler: un incontro a Amburgo

“La donna senz’ombra” all’Opera di Stato amburghese e la Sinfonia dei Mille alla Elbphilharmonie

Recensione
classica
“Qui ad Amburgo vi è un musicista che la comprende e che garantisce per lei, un musicista che in ogni momento riterrà un onore e un piacere spianarle la strada, per quanto lo permettano le sue deboli forze. Sono io per dirla in breve.” Così scriveva nel 1893 al collega Richard Strauss il primo Kappelmeister dello Stadttheater della città anseatica, Gustav Mahler, in angustie per le travagliate vicende della messinscena del “Guntram”, prima e non fortunatissima opera del compositore bavarese. Entrambi direttori apprezzatissimi prima ancora che affermati compositori – “Voi siete davvero il solo di tutti i miei colleghi che presta attenzione a qualsiasi mio lavoro”, scriverà con gratitudine Mahler, che ebbe non poche difficoltà a far riconoscere il proprio talento compositivo – erano animati da sincera stima reciproca, come testimoniano le numerose lettere scambiate nel corso degli anni, stima talora concretizzata in collaborazioni e sostegno reciproco. Se Strauss scriveva: “Grazie di cuore per avermi inviato la Seconda. L’ultimo tempo, per me nuovo, ha realmente una struttura poderosa! Con quale gioia vorrei ascoltare l’intera composizione o, ancor meglio, eseguirla io stesso!”, Mahler rispondeva: “Devo semplicemente dirle dell’impressione elettrizzante che la Sua opera (“Salome”) ha prodotto in me quando di recente ho letto la partitura. Ogni nota è esatta. La Sua vocazione è essere un drammaturgo. Attraverso la Sua musica Lei mi ha fatto capire per la prima volta di cosa tratta il lavoro di Wilde.” Dialogo sempre fecondo interrotto solo dalla morte precoce di Mahler nel 1911 mentre Strauss, praticamente suo coetaneo, gli sopravviverà ancora per numerosi decenni e attraversando varie fasi creative fino allo splendido crepuscolo creativo dei primi anni del secondo dopoguerra. Il dialogo riprende a Amburgo in un affollato weekend lungo per il 1 maggio. In cartellone il nuovo allestimento della “Donna senz’ombra” di Strauss all’Opernhaus e l’Ottava Sinfonia di Mahler nella nuova, ariosa sala dell’Elbphilharmonie. Un dialogo voluto dal “direttore delle musiche” di Amburgo, Kent Nagano, purtroppo costretto per malattia a rinunciare all’atteso appuntamento.

Trama complicatissima che prende vita attraverso innumerevoli personaggi quella immaginata da Hofmannsthal per esaltare il legame coniugale benedetto dai figli. “Forze potenti sono in gioco” che non si vedono mai se non nelle loro articolazioni quasi umane dell’imperatore o aspiranti tali come quell’imperatrice che per non poter proiettare l’ombra riduce a statua il coniuge. La sua nutrice, umana dall’anima nera che disprezza il suo genere, usa davvero ogni mezzo per servirla al meglio e ne paga il prezzo. E poi ci sono gli umani umani come quel Barak, l’unico realmente umano in quella genia di fratelli deformi (e non solo nel corpo) e una moglie insoddisfatta così tentata a vendere l’ombra prima di aprire gli occhi del semplice affetto del marito. Le forze potenti tornano in gioco e rimettono in sesto il disordine facendo ritrovare l’armonia turbata alle due coppie (l’imperiale e l’operaia) fra festanti cori di bimbi ancora non nati, che fan la morale: “Padre, nulla ti minaccia; ecco madre, già scompare l’angoscia che vi traviava. Vi sarebbe mai una festa, se non fossimo in segreto noi gli invitati, e noi pure gli ospiti.”

Die Frau ohne Schatten – Staatsoper Hamburg

Per il prodotto più oscuro della fortunata ditta Strauss&Hofmannsthal, cui non giova comunque troppa luce, il regista Andreas Kriegenburg si muove su un piano simbolico e stilizzato e prende a prestito una gestualità astratta del teatro orientale per il mondo sovra-umano e più naturalistica per gli altri. L’universo duale è ben rappresentato dallo scenografo Harald B. Thor nelle due scene mobili sovrapposte collegate dalla lunga spirale di una scala a chiocciola: praticamente vuota la scena superiore attraversata solo da elementi verticali e con una dominante cromatica azzurra, più costruita quella inferiore tagliata da vari piani orizzontali e illuminata da una luce verdastra (il sofisticato disegno luci è di Stefan Bolliger). I costumi di Andrea Schraad sono leggeri, quasi immateriali per il mondo di sopra dove tutti vestono di bianco, tranne il falco di rosso vestito, che contamina il braccio dell’imperatore; grigio-terreo è invece il mondo di sotto attraversato da un esercito di travet magrittiani con cappello e valigetta portadocumenti che travolgeranno la nutrice abbandonata dal favore degli dei. La narrazione è sobria e diligente e si concede un solo guizzo registico nel ricorrere (discretamente) alla chiave del sogno per risolvere i passaggi più oscuri ma anche per suggerire un parallelo fra la donna di Barak e l’imperatrice. Ed è proprio il sogno della prima, il prodotto di un sonno che le cela la verità dell’amore semplice e assoluto di Barak e proietta le sue inquietudini nella ricerca di umanità dell’imperatrice. E tutto il resto fa la musica, che trova in Axel Köber una guida esperta e abile a far esprimere alla Philharmonisches Staatsorchester sonorità cristalline e trasparenti per il mondo degli dei, e dense e materiche al mondo terreno e quello slancio lirico che riscalda l’imperatrice e le infonde quel senso del sacrificio e della compassione che la completerà. Di grande spessore le prove delle tre donne – Lise Lindstrom, perfetta nel rendere i tormenti della moglie del tintore, Emily Magee, gelida imperatrice, Linda Watson, sinistra nutrice – e non meno forti le presenze maschili – Roberto Saccà, imperatore , Andrzej Dobber, – e di tutti gli altri. * * * Due imprese grandiose: “Lei non ha scritto niente di più bello di più compiuto nella sua vita e e si deve sperare che la mia musica sia degna della sua poesia”, scriveva Strauss al suo librettista. “Non ho mai scritto nulla di simile, nel contenuto e nello stile è qualcosa di completamente diverso dagli altri miei lavori, ed è certamente la cosa più grande che ho fatto”, confessava Mahler al collega direttore Willem Mengelberg. La “cosa più grande” mahleriana si aggiunge alla lunga lista di eventi che segnano la prima stagione della Elbphilharmonie, l’edificio dall’audace architettura affacciata sul porto e già icona visitatissima della città (e qualcuno parla di questo Mahler come del primo vero stress test per l’acustica della sala). Dal soffitto della grande sala pendono sette lunghi pannelli luminosi che, nel disegno di rosalie, traducono sinesteticamente in variazioni cromatiche la musica mahleriana. Il vero spettacolo però sono gli interpreti, non mille, come da definizione dell’impresario Emil Gutmann, ma comunque moltissimi fra i tre cori (l’Hamburger Alsterspatzen, lo Staatschor lettone e il Coro dell’Opera di Stato amburghese), gli otto solisti (i soprani Sarah Wegener, Jacquelyn Wagner, Heather Engebretson, i due contralti Daniela Sindram, Dorottya Láng, e il trio maschile Burkhard Fritz, Kartal Karagedik e Wilhelm Schwinghammer) e la grande massa orchestrale della Philharmonisches Staatsorchester. Per Mahler il sostituto di Nagano è l’espertissimo Eliahu Inbal, da decenni profeta del verbo mahleriano. Fedele alla sua linea interpretativa, il suo Mahler ha la limpidezza strutturale di un classico, l’ultimo classico della grande tradizione sinfonica tedesca, nonostante sia “così fuori dal comune nel contenuto e nella forma che non è possibile scriverne” a detta dello stesso compositore. Il trionfale parossismo sonoro del “Veni creator spiritus” iniziale non offusca mai la chiarezza e la trasparenza dell’organico corale e orchestrale (e aiuta l’acustica chiara della grande sala). È però nella scena finale del “Faust” di Goethe della seconda parte che la linea musicale si fa più appassionante: una dinamica sonora costruita con passo lento che segue l’irresistibile moto ascendente. Dalla solitudine dell’oscuro paesaggio boscoso con gli anacoreti disposti sui dirupi, attraverso i passaggi di una salvazione spirituale che, sollecitata dall’esortazione della Mater Gloriosa “Vieni! Librati verso le sfere più alte”, sfocia nell’apoteosi (anche sonora) del toccante finale. “In alto ci attira l’eterno femminino”, quell’essenza che, per Mahler, “è proprio l’idea che qualsiasi tipo di amore è generativo, creativo e che esiste una genesi fisica e spirituale che è emanazione dell’Eros”. La donna, anche in Mahler, proietta un’ombra feconda.

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