Scala: un lumino per Turandot
Regia di Livermore e direzione di Gamba per commemorare Puccini
Turandot, Teatro alla Scala. Una produzione importante perché pensata per celebrare il centenario della morte di Giacomo Puccini con l’ultima sua opera, battezzata proprio alla Scala. Una compagnia di prim’ordine: Anna Netrebko nel ruolo del titolo, Davide Livermore alla regia e Michele Gamba alla guida dell’orchestra.
La direzione di Gamba, per sua stessa ammissione sul programma di sala, era volta non a cesellare la partitura di Puccini (una delle più screziate che esistano) con troppe preziosità, ma a farne emergere la pura potenza sonora e bilanciare questa con le voci degli interpreti. Il risultato, purtroppo, è stato deludente. Il volume dell’orchestra sovrastava sovente i cantanti, il fraseggio era sostituito dalle botte da orbi, le screziature andavano inghiottite dalle cannonate e la velocità forsennata dei tempi concedeva poco respiro alla musica. Curioso, poi, che Gamba, sempre nel programma di sala, apparenti Turandot ad Elektra, l’opera che Strauss voleva diretta con la leggerezza di «uno scherzo di elfi di Mendelssohn».
Non abbiamo spazio di elencare e discutere, punto per punto, tutte le “idee di regia” con cui Livermore ha rivestito la drammaturgia originale, perché si aggirano nell’ordine delle centinaia. Possiamo dire che è una messinscena nella quale chi conosce Livermore ritrova i principali elementi della sua cifra stilistica, tra cui, appunto, la sovrabbondanza. Perciò, prendiamo uno a caso di questi elementi per dare un’idea di com’era la parte visiva dello spettacolo: il mostrare didascalicamente concetti del libretto in forma mediata dal video o dal digitale. Esempio classico: le piume digitali che volteggiano nella sala del Piermarini vuota per tradurre in immagine «La donna è mobile / qual piuma al vento» (in A riveder le stelle, 2020). Lo stesso avviene anche qui: quando si parla di sangue o esecuzioni o boia le proiezioni di D-WOK tingono qualcosa di rosso, a tinta unita, a gocce, a macchie, a vapori; quando Liù canta «Tu che di gel sei cinta» improvvisamente nevica (analogicamente). C’è a chi piace, soprattutto ai turisti. Però è strano che Livermore parli, nel programma di sala, della creazione di un universo totalmente altro per questa sua regia: a volte pare di sfogliare un comune dizionario dei sinonimi – come in questi casi – o dei contrari, come ad esempio avviene con i tre Sapienti, connotati scenicamente come tre idioti, che fanno facce buffe, mossette, frizzi e lazzi nel momento solenne degli enigmi. Per lo meno non si notano troppo, annacquati come sono nell’horror vacui di scene e controscene di massa, alla maniera di Zeffirelli. Dalla galleria, all’uscita di Livermore, qualche fischio.
Dei cantanti, i migliori ci sono sembrati Rosa Feola (Liù) e Vitalij Kowaljow (Timur), dalla voce stentorea e potente il secondo, limpida e capace di sottigliezze la prima. Ottime anche le tre maschere (Sung-Hwan Damien Park, Chuan Wang e Jinxu Xiahou), al netto di qualche difetto di pronuncia. Purtroppo, nonostante le intatte capacità di attrice, bisogna ammettere che Anna Netrebko (Turandot) ha alquanto perso lo smalto vocale di un tempo, e che il timbro va sempre più intubandosi. Lei, da grande artista qual è, cerca di tramutarlo in tratto stilistico, ma di fronte a certe zone di passaggio c’è poco da fare; e lo stesso può dirsi per Yusif Eyvazov (Calaf), che però ha scatenato grandi applausi cercando di tenere più a lungo possibile il Si dell’ultimo «vin-CE-rò».
Infine, per commemorare Puccini, Livermore (presumibilmente?) ha pensato di far osservare a tutti un minuto di silenzio dopo la morte di Liù, il punto dove il compositore morì e dove Toscanini interruppe la prima esecuzione. Passi dunque alla storia che nello stesso luogo, novantotto anni dopo, la recita si è momentaneamente interrotta. Al pubblico erano stati distribuiti dei lumini elettrici da accendere in quel punto. Trenta secondi del minuto commemorativo venivano mediamente spesi nel cercare di farlo.
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