Sant'Anna Arresi, la storia continua
Con qualche defezione e un programma reinventato, l'edizione 2020 di Ai confini tra Sardegna e jazz
Ancora una volta (qui e qui le recensioni degli anni scorsi) voliamo dal continente, come amano dire gli isolani, in Sardegna, per approdare nel Sulcis Iglesiente, una delle zone più povere d'Europa, dove si tiene, nel piccolo paese di Sant'Anna Arresi, uno dei festival di riferimento per chi è interessato alle vicende del jazz più avventuroso in Italia.
L'edizione di quest'anno, martoriata dalle numerose defezioni (su tutte quella di Mats Gustafsson) ha evidenzato come il laboratorio permanente che viene messo in piedi in questo angolo ai margini del mondo necessiti senz'altro di un ripensamento e di una messa a punto. Se continuare a inseguire l'utopia non è un atto velleitario, questo festival merita di continuare la propria gloriosa storia, e il nostro augurio è che lo faccia nel migliore di modi.
Fulcro della settimana avrebbe dovuto essere proprio Gustafsson, in solo, in duo ed in quartetto: saltato lui, e diversi musicisti che dovevano suonare con lui e non solo, ci si è arrangiati in qualche maniera, a volte con buoni risultati, in altri frangenti meno.
Ha aperto un solo di batteria di Hamid Drake a Masainas, chiamato a rimediare a un'emergenza (erano saltati entrambi i concerti di apertura). Restiamo umani, la frase di Vittorio Arrigoni, sul muro della piazzetta dove si inaugura la manifestazione; il batterista afroamericano, per l'altra metà di sangue indiano americano, confessa di non prediligere in particolare il solo per una questione politica e filosofica prima che estetica. «In America siamo arrivati a questo punto proprio perché abbiamo ragionato per troppo tempo con una modalità che ci faceva pensare suonassimo in solo», dice. Il set, dedicato alla memoria di George Floyd, si poggia, per ammissione dello stesso Drake, sulle spalle dei giganti: Elvin Jones, Eddie Blackwell, Max Roach. Indiscutibile e già ampiamente nota la maestria di brother Hamid, il set però, eccezion fatta per il pezzo cantato con accompagnamento di tamburo a cornice, mostra anche che questa non è certo la sua dimensione ideale.
Smaltita la delusione per il buco del primo giorno, è il turno del brillante Alexander Hawkins, che si esibisce in solo invece che in duo con la cantante di Fire! Orchestra Sofia Jernberg come da programma. Il pianista inglese, protagonista l'anno scorso di uno splendido lavoro in solo su Intakt, Iron into Wind, e quest'anno di un duo con Tomeka Reid, Shards and Constellations, sempre per l'etichetta di Zurigo, è musicista talentuoso, colto, preparato e versatile: in alcuni frangenti fa pensare a una sorta di Bollani privo dell'attitudine da avanspettacolo. Apre con una magnifica composizione di Braxton, un lieve infrangersi di microscopici, specchi sotto la pioggia, l'attesa di ciò che non arriverà, cattedrali di suono sommerse da oceani (affiorano ombre di Debussy); poi vortici, una ballad, cluster, nevrosi ritmiche ("Tumble Mono", dal solo citato prima). A seguire un esperimento, non troppo riuscito: un trio con Alfio Antico (voce e tamburi), Alberto Balia (chitarra) e Hamid Drake (batteria); l'incontro non genera nuova musica, ma vede il batterista statunitense intervenire con discrezione nella trance ritmica del cantore ancestrale siciliano. Alcuni spunti emozionano (il disco di Alfio del 2016, intitolato semplicemente Antico, è una perla grezza), ma l'impressione complessiva è che si resti a metà del guado.
La sera seguente un altro solo per cominciare: Giancarlo Schiaffini, con Pinocchio Parade; il trombonista romano, classe 1942, sonorizza un video di Cristina Stifanic (interessante nell'approccio, forse non pienamente a fuoco nel risultato). Ispirato alla versione originale della storia del burattino, il live ci propone una racconto sonoro ambiguo, nel senso positivo del termine, teso, marginale, come proveniente dalle nebbie di un sogno: archetipi, enigmi, ombre, fuga, frangenti liberi e sospesi, tra elettronica home made, echi di circo e bande di paese felliniane, il suono di un dispositivo con le pile scariche, o di un grammofono in una discarica. Echi di un folklore parallelo, frammenti addirittura hip-hop, trasmissioni da radio distanti (la citazione da Roscoe Mitchell è voluta), le ombre di un'America sghemba, languori di un blues informalissimo e (dis)apparente. Un progetto per certi versi irrisolto e che ha destato pareri discordi ma che a chi scrive ha stimolato belle visioni, vagando nel lato oscuro di Pinocchio, a spasso con i fantasmi in una sorta di opera grottesca dove il legno e la carne del bambino che muta sostanza sono il nostro legno e la nostra carne proiettati su un fondale color Novecento.
A seguire il duo Hawkins-Drake: se il tachimetro nell'esibizione in solo del pianista aveva puntato verso un intrattenimento di grande eleganza e varietà linguistica, in questo caso ci muoviamo in territori in apparenza più aspri e vicini a un ignoto che però ci è familiare e che si pronuncia con un nome ed un cognome: Cecil Taylor. Le scontrose (e benvenute) movenze iniziali però sfociano in un'apertura jarrettiana più risaputa. Poi il pianoforte preparato diventa una kalimba, un'Africa indecisa tra accademia e vertigine, secoli racchiusi nel cigolio di un carillon. Una musica che fa venire voglia di ballare, e prendetelo come un gran complimento: affilata, seducente, accogliente ed ispida; ombre di Monk in una pozzanghera sul finale, per un live in cui senz'altro i due si sono affidati anche al loro grande mestiere (del resto, di un inedito si trattava, e non c'era stato tempo per prepararsi), ma che ha saputo comunque divertire parecchio, anche se ci si aspettavano probabilmente brividi più alti o profondi che non sono giunti.
La terza serata vede sul palco di Piazza del Nuraghe il New Thing Trio di Franco d'Andrea, con Mirko Cisilino (da tenere d'occhio, membro anche degli avant afro beat Maistah Aphricah, nonché session man con C'mon Tigre) alla tromba ed Enrico Terragnoli a chitarra e synth. Un groove sinuoso, sottile, inesorabile, una sorta di second line di New Orleans in polvere, tra astrazioni, fluidità e rigore. La chitarra funge spesso da percussione, il suono è sempre in sottrazione, sornione, con un che di metafisico, lieve e ponderato al tempo stesso. Il pianismo riflessivo del leader si sviluppa con la perfetta lentezza di un pensiero essenziale e meditato, lavorato a lungo, senza risultare verboso o troppo carico, ma anzi sfrondando, sfoltendo, togliendo, fino a lasciare solo il nocciolo saporito dell'idea. Che, volutamente priva di fuochi di artificio, è quella di uno swing (in senso lato) che si regge sul vuoto: del resto, come insegna il funk, il groove lo fai con i silenzi. Un discorrere nitido e a mezz'aria, come una leggera vertigine geometrica, tra serissimi giochi matematici e l'infanzia luminosa dei filosofi. Ombre di Monk (ancora lui) riflesse in un quadro di Mondrian, languori blues, omaggi ad Ellington. Una musica che è anzitutto un pensiero ed un'attitudine, tesi ad estrarre la radice (poco) quadrata della Storia: paradigmatica in questo senso la versione in chiusura in solo di "Naima" di Coltrane.
La stessa sera, per quello che probabilmente è stato il clou (inaspettato) della rassegna, Anthony Joseph, accompagnato da una band semplicemente micidiale, ha fatto strike. Filosofia, attivismo, profumi di Caribe, spezie d'Africa, diaspora e rivoluzione, miraggi, il critico butta la penna e il ciancicato quadernetto nella borsa di tela e finalmente si mette a ballare, diventando tutt'uno con la musica. Immaginate degli Heliocentrics meno fumosi e fumati e più solari (il sassofonista Jason Yarde è in entrambe le band) e la potenza schiacciasassi dei Fishbone di un capolavoro come The Reality of My Surroundings: un ritmo poliglotta, vero e proprio inno al meticciato, portato avanti con naturalezza da un ensemble che è una vera e propria macchina da guerra, a cui infatti il cantante, carismatico, soulful e coinvolgente, lascia amplissimo spazio per digressioni liberatorie e fluviali. Swing Praxis: il jazz, il funk, il blues non sono solo un groove, ma un modo di pensare, di vivere, ci dice il leader; lo stile conscious dei suoi poemi in musica è la risposta virata in arcobaleno del mood teso e grigio di una Moor Mother. Il disco, presentato in anteprima assoluta a Sant'Anna, uscirà nel 2021. Nel mentre recuperate People of the Sun del 2018 e seguite questa band fantastica. Puro distillato di gioia.
Il quarto giorno di nuovo un duo per rattoppare un buco, Yarde al sassofono ed ancora Hawkins al pianoforte, tra omaggi a Moholo-Moholo (i due collaborano), improvvisazione e rivisitazioni: musicisti notevoli, ma l'alchimia scatta solo a tratti, mentre per il trio di Jacky Terrasson vale solo la pena di dire che questo tipo di jazz da crociera è inutile più che innocuo. Il sabato è il turno del solo di D'Andrea, che racconta di essere arrivato ad Ellington tardi; il suo mood pensoso e sghembo mi ha emozionato in trio e mi ha stupito nei due volumi dell'ottetto (qui e qui). In questa occasione non mi ha fatto sobbalzare, ma dubito comunque che fosse questa la sua intenzione. La scintilla della creazione però mi è parsa meno viva, ecco, pur ribadendo l'assoluta stima nei confronti di un musicista intelligente, curioso, e di una sobrietà rara e preziosa. Esemplare la sua versione (già affrontata da Hawkins) di "Naima", rispettosa ma non calligrafica, intenta a catturare il cuore di quel brano immortale, di quella nostalgia che non smette di pulsare in petto.
Polveri completamente bagnate invece per l'appuntamento che ha richiamato più pubblico in assoluto, The Comet is Coming: electro punk fracassone e discretamente banale, non basterà certo un sassofono per chiamarlo jazz. Tanta enfasi un po' gratuita (le basslines gonfie del tastierista, il massimalismo pestone che domina lo sviluppo di ogni brano all'insegna del palla lunga e pedalare) e tanto rumore per nulla. Un 4/4 piatto, nessuna dinamica, nessuna idea feconda. La cometa non sta arrivando. Avevo visto Sons of Kemet a Mulhouse, e già in quel caso mi ero portato a casa alcune perplessità, sebbene la statura di quel progetto paia senz'altro superiore. Stavolta sono certezze, per l'orecchio e così anche per cuore e cervello. Il trio, che richiama un pubblico del tutto diverso da quello del festival (e questo, intendiamoci, è un bene), sembra voler soddisfare la voglia di sentirsi avant di una utenza che non frequenta affatto il jazz: nessuno snobismo, chi scrive non ha pregiudizi musicali di alcun tipo. Solo la qualità di questa band ci è parsa di una pochezza evidente. Audience molto più giovane del solito, magliette dei Boards of Canada o dei Minor Treat: ci si affida all'osservazione antropologico/sociologica e alla curiosità umana perché quello che accade sul palco proprio non riesce ad attrarre la nostra attenzione. Un collega navigato e dagli orizzonti spalancati a ogni suono coglie con la sintesi dei grandi perfettamente il punto: «Io mi diverto, non si sente della musica così in discoteca». Poi però, come me ed altri, esce prima della fine.
L'ultima sera tocca di nuovo a Jacky Terrasson, stavolta in solo: il pianista francese è senz'altro un ottimo musicista, ma dell'ennesimo live di intrattenimento di gran classe con versioni in bella grafia di "Over the Rainbow", "Smile" e "Caravan" io non so che dire di buono, francamente. Una parte del pubblico apprezza, la critica in generale mugugna. Molto, molto meglio il finale con Roots Magic: il quartetto romano apre con una versione mesmerica di "Dark Was the Night, Cold Was the Ground" di Blind Willie Johnson, e sono brividi: l'idea di far sposare il blues ed il free è acuta e viene declinata in modo eccellente. Tra radici e magia, tra ieri e domani, ancient to the future come diceva l'Art Ensemble of Chicago, i quattro musicisti, sensibili e ispirati, si perdono nello spazio come la sonda Voyager su cui viaggia il disco con il leggendario blues del 1927, in un luogo dove presente, passato e futuro si fondono e si confondono in un'unica, sterminata, minacciosa e materna nebulosa. Sono tanti i nomi tirati in ballo nel concerto, da Julius Hemphill a Skip James, da Kalaparusha McIntyre a Olu Dara, sino a Milford Graves. Una lezione di storia per nulla polverosa ma vibrante ed energica: i dischi, pubblicati da Clean Feed (l'ultimo è Take Root among the Stars, fresco di uscita) andrebbero fatti ascoltare a chi crede che il free sia una musica che non arriva alle e dalle viscere. Ottima l'intesa tra Fabrizio Spera (batteria), Enrico De Fabritiis ( sassofoni), Alberto Popolla (clarinetti) e Gianfranco Tedeschi (contrabbasso), nell'attesa di ascoltare più materiale autografo da una band che in nove anni ha saputo perfezionare a oggi un meccanismo capace di marciare a pieno ritmo.
Chiusura al rialzo per una edizione interlocutoria di un festival che, al netto dell'indiscutibile fase di transizione e delle difficoltà di vario tipo, endogene ed esogene, resta senz'altro uno degli appuntamenti irrinunciabili in Italia per chi ama le musiche creative non allineate. All'anno prossimo, ancora una volta ai confini tra Sardegna e jazz.
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