Salone e Narrazioni Jazz: effetto horror vacui
Il successo di pubblico del Salone del Libro 2017 e le politiche culturali
Festeggia il Salone del Libro di Torino, che ci tiene alla precisione sabauda e dichiara 140.746 presenze in cinque giorni. Festeggia Narrazioni Jazz, con concerti quasi sempre affollati anche in orari (il pomeriggio dei feriali) e luoghi (l’Auditorium del Lingotto) non facili e a rischio.
Insomma, tutti contenti e felici. Felice il Salone, che si vendica di Milano e dei grandi editori, di cui nessuno ha sentito la mancanza. Felici gli altri editori, e gli organizzatori di concerti, che fanno a gara a postare foto di stand e location affollate («C’era gente?»). Felice la giunta Appendino, che aveva ereditato una patata bollente (non per colpa della giunta precedente, va detto) e finisce per salvare capra e cavoli contro ogni ragionevole pronostico. E che con Narrazioni Jazz ha azzardato non poco e – a quanto pare – è stata ripagata.
Un post condiviso da narrazionijazz (@narrazionijazz) in data: 22 Mag 2017 alle ore 07:01 PDT
Dunque, che cosa c’è da lamentarsi? Sulla carta nulla, se fossimo di quelle persone che valutano un festival in base a quante presenze fa. In realtà, la sovrapposizione fra il nuovo Salone del Libro e Narrazioni Jazz, e il loro successo, mette in luce un nodo piuttosto serio che riguarda le politiche culturali e la programmazione.
Vediamo come si è arrivati alla soluzione di un nuovo festival jazz sovrapposto al Salone del Libro.
Un post condiviso da Salone Del Libro (@salonelibro) in data: 18 Mag 2017 alle ore 02:14 PDT
Nel 2012 Maurizio Braccialarghe, assessore alla cultura della seconda giunta Fassino, al suo primo mandato, vara il Torino Jazz Festival. Un festival fortemente voluto contro buona parte dell’opinione pubblica, accusato senza pietà da molti di drenare fondi ad altri (MITO su tutti), di aver scelto un direttore artistico inadeguato (Dario Salvatori) e di aver proposto un programma discutibile, in una collocazione infelice (fra 25 aprile e 1° maggio a Torino piove spesso) e con promozione e organizzazione partite in netto ritardo sulle agende degli altri grandi eventi.
Dal 2013 Braccialarghe corregge il tiro: direzione artistica a Stefano Zenni, programmazione più sensata e l’impressione di un festival in crescita. Infine, nel 2015 soprattutto – grazie alla grande produzione del Sonic Genome di Braxton – e poi nel 2016 (ne abbiamo parlato qui e qui), il Torino Jazz Festival sembra essersi affermato con una sua formula e una sua identità riconoscibile.
E si arriva alla vittoria dell’Appendino, da sempre ostile al Torino Jazz Festival. La chiusura sembra probabile, i torinesi difendono quella creatura così odiata all’inizio, ma dalla giunta non arriva nessuna notizia. A inizio ottobre 2016 Zenni afferma di non sapere nulla, e la chiusura sembra essere ormai cosa certa. Passano le settimane. I commentatori più disparati piangono il Torino Jazz Festival, diventato di colpo il più amato appuntamento torinese. Parte una petizione (ancora: il Comune tace). Infine, Zenni dichiara pubblicamente su Facebook la morte del Torino Jazz Festival, e annuncia che curerà una breve serie di concerti jazz durante il Salone del Libro…
…breve serie che diventa un festival di cinque giorni con un budget da 600 mila euro. Da qualche parte, fra la confusione autunnale e la crisi del Salone del Libro, si deve essere pensato che un altro grande evento potesse aiutare a evitare la fuga di pubblico da un Salone che pareva nascere mutilato: unire le forze per rilanciarsi.
E torniamo all’inizio: cosa c’è di male? Sulla carta, un’ottima idea ripagata dal successo di pubblico.
Nei giorni del Salone e Torino era piena di eventi come non mai. Il Salone del Libro con i suoi incontri e gli showcase e le conferenze; il Salone off, con concerti di buon livello (Bombino, 2Manydjs) all’ex-Incet, e una miriade di appuntamenti interessanti; Narrazioni Jazz, con 2-3 grandi eventi al giorno più i collaterali; i concerti di Jazz per la Città, di fatto dentro Narrazioni Jazz ma in pratica affidati in toto ad associazioni tramite bando; una Notte bianca...
Una scelta di quantità – con alcuni picchi di qualità, senz’altro – ma che trasmetteva l’impressione di un horror vacui sulle 24 ore. Come si valorizza un artista, una produzione originale, un autore invitato a parlare del suo libro se gli si controprogramma di tutto? L’idea di piazzare concerti ovunque, in contemporanea, mi sembra appartenere a una logica che in primis non rispetta i musicisti, e che in secondo luogo non fa un buon servizio neanche al pubblico. Una logica da “grande evento” (criticata a suo tempo, e a ragione, anche dall’attuale sindaco Appendino) che non dovrebbe appartenere a delle buone politiche culturali.
Ecco, le politiche culturali: capisco affermare il brand Torino, capisco le paure del fallimento del Salone… ma dove sono in tutto questo le politiche culturali? Dov’è la programmazione a lungo termine? 600 mila euro è una cifra con cui gestire il cartellone annuale di un teatro di media grandezza. Che senso ha fare 5-6 eventi di alto profilo in contemporanea (più svariati collaterali, e dietro ogni collaterale – ricordiamo – ci sono ore di prove, di lavoro, di scrittura) se nel resto dell’anno si continuano a fare le nozze coi fichi secchi, e se la proposta culturale della città si svuota?
Il Salone 2017 ha dimostrato una cosa importante, e che era necessario dimostrare: a Torino c’è un grande pubblico per gli eventi culturali, che ha dato una risposta e un entusiasmo del tutto inattesi per 5 giorni. A delle buone politiche culturali andrebbe il compito di occuparsi anche degli altri 360: ora – forti di questo successo – è il momento giusto per farlo.
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