Salome in famiglia
Alla Staatsoper di Amburgo il regista Dmitri Tcherniakov trasforma l’opera di Richard Strauss in un dramma borghese con una straordinaria Asmik Grigorian protagonista
Interno altoborghese. Grande tavola imbandita con numerosi commensali. Si festeggia il compleanno di Erode, il padrone di casa vestito con un abito floreale di seta rosa. Arriva la figliastra Salome con una T-shirt nera infilata sopra l’abito a sera di seta gialla. Non è dell’umore giusto. Peggio, sembra odiare tutti in quel rito al quale chissà quante volte ha preso parte. Solo uno di loro sembra interessarla. È diverso dagli altri: veste in modo semplice, forse un intellettuale o magari un uomo di chiesa, soprattutto non si separa mai dal libro che tiene sul tavolo. È Jochanaan. Non è particolarmente attraente, esibisce un vistoso riporto a coprire la calvizie, ma Salome prova per lui un’attrazione che si fa più forte quanto più lui la respinge. Non è attrazione sessuale ma la via di fuga, da quella casa e da quel mondo che lei odia.
È la nuova Salome che il regista e scenografo Dmitri Tcherniakov ha presentato alla Staatsoper di Amburgo con grande successo e disponibile gratuitamente in streaming sulla piattaforma di Arte concert. Ancora una volta, secondo un suo metodo oramai consueto, il regista russo aggiorna a dramma borghese la vicenda, eliminando tutto ciò che non è essenziale alla sua narrazione. Non ci sono cisterne o prigioni e nessuno muore, né Narraboth né Jochanaan concederà la propria testa mozzata a Salome per il bacio fatale. Più che mai lo psicodramma di Salome, donna ancora bambina e traumatizzata da un patrigno lubrico e una madre distratta, è il centro focale di questa produzione, curatissima nei dettagli come nella drammaturgia parallela alla quale si assiste.
Salome torna a essere Asmik Grigorian e il trionfo è lo stesso di quello sul palcoscenico di Salisburgo di cinque anni fa e, se possibile, la sua portata espressiva è anche più intensa oggi. Ancora una volta impressiona la sua capacità di scavo e l’aderenza al personaggio anche in una lettura registica opposta per molti versi a quella di Romeo Castellucci. Qui il dramma di solitudine e rifiuto di Salome è vissuto in una dimensione interiore ed esplode in momenti di rabbia, lanciano sedie o distruggendo gli oggetti del suo rassicurante guscio borghese. Non c’è la danza dei sette veli ma Salome si spoglia fino a restare in biancheria intima, senza vera malizia. Si rifugia persino tra gli scaffali della boiserie del salone per sfuggire agli occhi dei commensali, accetta di farsi vestire dal patrigno con un costume ridicolo, per avere il premio che Erode le ha promesso e rompere l’indifferenza dell’oggetto da lei desiderato, che alla fine non avrà, cadendo a terra come svuotata nel finale. Non ci sarà nessuna fuga per lei.
Sul piano vocale e attorale, Asmik Grigorian mette tutti in ombra anche se la compagna è di ottimo livello. John Daszak è un Erode stentoreo e perfetto negli abiti del volgare parvenu, che la moglie Erodiade (una notevole Violetta Urmana), non meno volgare, gli rinfaccia con la gelida fredezza che ha riservato anche alla figlia. Kyle Ketelsen è un robusto Jochanaan, spesso di spalle al pubblico a sottolineare una distanza da quel mondo del quale è comunque parte. Nel resto della compagine priva di punti deboli, si fa notare Oleksiy Palchykov, un angosciatissimo Narraboth dipinto con toccanti accenti lirici.
Tesissima come la rabbia repressa di Salome, la direzione di Kent Nagano è un altro punto di forza di questa riuscita produzione. Attentissima ai dettagli e lucidissima, la lettura di Nagano sfronda questo Strauss dei cascami del decadentismo (che probabilmente gli sono costati i fischi di qualche nostalgico) e lo proietta decisamente fra i grandi compositori moderni del Novecento.
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