Quattro giorni a Fano
Diario di un viaggio ritrovato a Fano Jazz By the Sea 2020
In questo tempo incerto, smarrito più che sbandato (con buona pace di Fossati), in questo tempo alla ricerca di se stesso tra una reinventata socialità e una necessaria ricerca di sicurezza post emergenza Covid19, Fano Jazz by the Sea 2020 ha offerto l’esperienza di un viaggio ritrovato.
La ventottesima edizione della manifestazione, che si è svolta nella città marchigiana tra il 24 e il 31 luglio scorsi, ha infatti proposto quel senso di scoperta insito in un viaggio musicale tracciato su una mappa che ha mischiato generazioni e luoghi differenti, passando dal Main Stage della Rocca Malatestiana, all’Exodus Stage della Pinacoteca di San Domenico; e ancora dallo Young Stage alla Chiesa di San Francesco, arrivando al Cosmic Journey nei locali del Pincio e all’iniziativa Live In The City, concerti aperitivo nei locali del Lungomare.
Un tragitto che, nella dimensione inevitabilmente “diversa” di quest’anno, rimodulata per far fronte alla situazione contingente, ha saputo confermare lo spirito di fondo, facendo ritrovare quella miscela fresca e coinvolgete che da anni segna le giornate di questo festival. Una manifestazione capace di coniugare proposte musicali articolate e curiose con un’anima green che quest’anno si è concretizzata, tra l’altro, nella presentazione in prima nazionale del veicolo ecologico Cricket PE30, un mezzo completamente elettrico con a bordo un allestimento professionale per la diffusione audio.
Tra gli 8 giorni di musica, con 140 musicisti – tra gli altri ricordiamo Rosario Giuliani, Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura, Enzo Favata, Zanchini-Salis Duo – coinvolti nell’ambito di 31 concerti (di cui 23 gratuiti) abbiamo scelto di seguire alcuni appuntamenti tra martedì 28 e venerdì 31 luglio.
Prima giornata (28 luglio)
Sole e caldo: questi gli elementi che abbiamo ritrovato – conferma di un ricordo rassicurante – arrivando a Fano per tuffarci in medias res in questo festival 2020. Passeggiando tra i vicoli dell’antico centro storico, siamo quindi andati alla ricerca dei nostri primi appuntamenti musicali nell’ambito di un festival che, come altri in questo periodo post Covid19, è riuscito comunque a non mancare l’appuntamento con il suo pubblico di appassionati.
Il primo concerto che abbiamo seguito è stato quello offerto da Dimitri Grechi Espinoza, che ha presentato il suo lavoro Oreb nell’ambito di Exodus Stage, lo spazio che questo festival riserva ormai da tempo alla riflessione sulle diverse dimensioni del concetto di migrazione. Del suo lavoro discografico omonimo, uscito recentemente, Espinoza ha conservato l’impianto di fondo, rappresentato da un percorso solistico nel quale il suo sax dialoga con i riverberi dello spazio abitato dalla sua musica, riuscendo a evocare anche differenti suggestioni armoniche. Una sorta di riflessivo e intenso pellegrinaggio timbrico reso ancora più denso e pregnante dalla risposta acustica della Pinacoteca San Domenico, una ex chiesta la cui struttura architettonica restituisce un rimando sonoro particolare. Una caratteristica che, se può rappresentare un dato problematico in altre situazioni, in questa occasione si è rivelata un segno distintivo, con Espinoza che è andato a cercare il suo suono in fondo all’abside, nascosto alla vista del pubblico, proponendo una sorta di esperienza acusmatica dove il timbro denso del sax sgorgava da un luogo invisibile, salendo nello spazio e diffondendosi lungo la crociera per poi ridiscendere e infine imboccare tragitti diversi lungo la chiesa.
Seconda tappa di questo nostro primo giorno, il concerto del duo O-Janà, formato da Alessandra Bossa (piano, synth, electronics) e Ludovica Manzo (voce, sampling), due artiste partenopee che propongono una miscela musicale tra pianoforte, voce ed elettronica nutrita da palese capacità tecnica e ricercata indagine stilistica, a mezza strada tra la libera e istintiva sperimentazione e il ricalco di soluzioni linguistiche più immediate ed edulcorate. Dimensioni, quest’ultime, evocate soprattutto nella prima parte della loro esibizione sul palcoscenico dello Young Stage, virata poi su fronti segnati da più interessanti sprazzi sperimentali ed estemporanei.
Per il terzo concerto abbiamo seguito un Gianluca Petrella in grande spolvero, che ha ricondotto l’uso dell’elettronica nell’alveo di una tensione espressiva certo molto immediata e comunicativa, ma densa di invenzioni, guizzi, intuizioni originali e coinvolgenti. Il grande affiatamento di una band che ha riunito sul Main Stage musicisti quali Mirco Rubegni (tromba, effetti), Blake Franchetto (basso elettrico), Federico Scettri (batteria) e Simone Padovani (percussioni) e l’indole eclettica del trombonista hanno regalato una serata di musica trascinante, la cui fusione tra l’incedere ritmico solido ed incombente e le tese incursioni timbriche degli ottoni hanno tenuto vivo per tutto il concerto un trascinante coinvolgimento.
Seconda giornata (29 luglio)
Ad aprire la seconda giornata abbiamo trovato la rigogliosa fantasia di Anaïs Drago, violinista e compositrice che, nell’ambito dell’Exodus Stage, ha presentato il suo “SoloProject”, una sorta di articolata sequenza (aperta da alcune parole sui migranti di Erri De Luca) nella quale venivano presentati in successione riletture di brani estratti da differenti ambiti storico-stilistici – da Erik Satie al Moscow Art Trio, fino ad arrivare al Philip Glass di Einstein on the Beach – alternati a momenti improvvisativi. Un tracciato d’ascolto che ha evidenziato le doti virtuosistiche di una musicista capace di offrire momenti dalla palese efficacia e che, al di là di alcuni passaggi cantati che nulla aggiungevano al dato musicale, ha fatto intuire tutte le potenzialità per lo sviluppo di una dimensione espressiva ancora più personale e compiuta.
L’Elias Lapia Trio – Elias Lapia al sax alto, Salvatore Maltana al contrabbasso e Adam Pache alla batteria – ha poi occupato il palco dello Young Stage, sezione del festival ospitata nel particolare luogo all’aperto ricavato dalla ex Chiesa di San Francesco, dove un nutrito pubblico ha seguito il gusto musicale immediato di questo gruppo selezionato nell’ambito del Bando NuovoIMAIE.
Fabrizio Bosso e Luciano Biondini sono infine saliti sul palco principale per intrecciare i suoni, rispettivamente, di tromba e fisarmonica in quel brillante caleidoscopio di timbri e melodie che abbiamo conosciuto fin dai tempi di Face To Face, l’album del 2013 che ha catturato lo spirito piacevolmente coinvolgente di questo duo. Un lavoro che ha inoltre rappresentato l’ideale cornice di questa serata, segnata da conferme come la morbida rilettura della ninna nanna di Johannes Brahms, e immancabili omaggi quali quello reso ad Ennio Morricone attraverso una sentita interpretazione del “Tema d’amore” da Nuovo cinema Paradiso.
Terza giornata (30 luglio)
Due ambiti espressivi affatto differenti hanno rappresentato l’alfa e l’omega della terza giornata. Si è partiti dalla ricerca musicale di Marco Colonna, clarinettista e indagatore delle potenzialità timbriche del suo strumento che ha condiviso nell’ambito dell’Exodus Stage la sua personale visione espressiva nella dimensione solistica. Un approccio, quello di Colonna, che, al contrario di quanto proposto da Espinoza due giorni prima, ha fatto della presenza e della fisicità – anche timbrica – un elemento determinante della sua performance. Un viaggio sonoro nell’ambito di un ventaglio espressivo composto da una miscela di tecniche e soluzioni interpretative che hanno indagato il suono del clarinetto basso sostanzialmente in tutte le sue possibilità. Suoni ora puliti ora slabbrati, colpi d’ancia e raddoppi melodico-armonici grazie a un secondo strumento suonato in contemporanea: queste e altre le soluzioni che, andando oltre la capacità virtuosistica fine a se stessa, hanno permesso a Colonna di accompagnare il pubblico presente in un percorso d’ascolto originale e denso, disciolto alla fine in un elegante disegno melodico che ha evocato il tema di “Gracias a la vida” di Violeta Parra, innestando un valore aggiunto simbolico all’intensità dell’ordito musicale proposto.
Dalla parte opposta di un ideale perimetro espressivo abbiamo poi trovato il duo formato dal pianista inglese Bill Laurance e dal bassista californiano Michael League, impegnato ad offrire dal palco principale della Rocca Malatestiana una loro idea di dialogo musicale scaturito in un qualche modo dall’isolamento dovuto al periodo di lock down. Lontani quindi dalla dimensione coralmente eclettica rappresentata dalla formazione degli Snarky Puppy – ma anche da quelle tentazioni word che segnano i Bokantè, secondo gruppo di League – i due musicisti hanno sparpagliato suggestioni musicali ora tratte dal lavoro con il loro gruppo, ora omaggiando artisti quali, tra gli altri, il Pat Metheny di Question and Answer, ora lanciandosi in qualche sortita improvvisativa costruita su tracciati armonici a mezza strada da minimalismo, approcci blues e vaghi sentori new age. Un dialogo comunque immediato e comunicativo, quello offerto dalla coppia League-Laurance, concluso con un omaggio che il bassista californiano ha voluto offrire alla figura di Jaco Pastorius.
Quarta giornata (31 luglio)
L’ultima tappa di questo viaggio ritrovato tra le atmosfere del festival Fano Jazz by the Sea è stata segnata dal concerto di Javier Girotto titolato Tango Nuevo Revisited. Inizialmente previsto sul Main Stage a chiusura dell’edizione 2020 della manifestazione con la formazione degli Aires Tango – ma sostituita a seguito di un grave incidente occorso al bassista Marco Siniscalco – il sassofonista di origine argentina ha condiviso con il pubblico con misurata sensibilità un ulteriore grave lutto affrontato nei giorni immediatamente precedenti il concerto, offrendo ad apertura di serata una sorta di partecipata confidenza offerta con delicata discrezione al pubblico presente. Un pubblico che ha poi seguito l’intenso tragitto proposto da Girotto attraverso un ideale scambio espressivo tra le figure di Astor Piazzolla e Gerry Mulligan, oggetto di una indagine partita dal disco Summit che i due artisti hanno realizzato nel 1974 e che il sassofonista ha condiviso con compagni di viaggio quali Gianni Iorio al bandoneon e Alessandro Gwis al pianoforte e tastiere. Un trio capace di restituire dialoghi efficaci, nutriti con una sensibilità espressiva partecipata e sincera, offrendo momenti particolarmente riusciti in reinterpretazioni di brani quali, tra gli altri, “Deus xango”, “Years Of Solitude” o ancora “Aire De Buenos Aires”, quest’ultima firmata da Mulligan al cui sax baritono Girotto ha reso omaggio con interpretazioni sentite, seguite con attenzione da un pubblico che alla fine ha salutato con calore questa serata finale.
Una bella chiusura per un viaggio che ha trovato in questo momento conclusivo quella miscela di espressione artistica e umanità che, specie in questo periodo, non guasta affatto.
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