Premio Parodi, buone notizie
Il brano di Daniela Pes vince l'edizione del decennale, e conferma la crescita del Premio
Mi è ormai difficile parlare del Premio Parodi senza tenere a mente la comunità di operatori culturali che ci gravita intorno (me compreso), e quel genuino piacere di incontrarsi ogni anno a Cagliari che la anima. Questa è però una riflessione che va oltre l’aneddotica. Uno dei temi cardine del Premio, almeno nell’ultimo quinquennio, è stata una inesausta riflessione sul suo oggetto di interesse, su questa dannata “world music” che non esiste, che non si capisce se esiste, che è esotica, che è concetto postcoloniale, che però – più nolenti che volenti – continuiamo a trovarci tra i piedi. Uno dei problemi della definizione, soprattutto in Italia, era l’assenza di uno spazio codificato per parlare di questi temi, e per misurare lo stato dell’arte della “world music” (qualunque cosa sia).
La maturità del Premio Parodi, incassato il successo della decima edizione, dovrebbe ormai permettere di archiviare il problema. O meglio: di accettare serenamente che la categoria non è fissa, e non potrà mai esserlo (grazie a dio), ma che buona parte dei suoi significati presenti e futuri in Italia si definiranno proprio intorno al Premio Parodi. Dunque, il Premio è davvero diventato un osservatorio privilegiato su quanto in Italia passa per "musica del mondo": una scena nazionale – di artisti e di operatori – c’è. Ha avuto momenti di appannamento, ma è confortante che oggi possa ritrovarsi intorno al Premio Parodi: la manifestazione cagliaritana ha ormai preso quel ruolo che il Medimex ha mantenuto lo spazio di un paio d’anni, e che nessun altro ha saputo tenere con continuità. Negli ultimi anni è anche cresciuta la partecipazione alla giuria di operatori internazionali, per molti dei quali – anche per assenza di alternative – il Parodi rappresenta l’unica finestra sulla world music prodotta in Italia, come è Manresa per la Catalogna o Babel Med per la Provenza. È una assunzione di responsabilità di cui la Fondazione Parodi dovrà (e saprà) farsi carico anche per i prossimi anni, forte della solidità della comunità artistica e professionale che la supporta.
Come sta, dunque, la world music in Italia? A giudicare dal livello dei nove finalisti dell'edizione 2017 (il decimo selezionato, il gruppo turco Hentu, non ha potuto prendere parte alla tre giorni), molto bene. Si è consolidata, mi sembra, una tendenza di lungo periodo: la presenza massiccia di proposte in dialetto o in lingua minoritaria che non approfondiscono particolarmente un linguaggio “world” nella musica o nella strumentazione (anche se, in molti casi, il limite è imposto dall’organico ridotto scelto, più che essere una scelta consapevole). Si è però dissolto il rischio, avvertito da molti come concreto non più di un paio di anni fa, che il Premio si riducesse a essere una rassegna di canzone d’autore in dialetto.
Da questo punto di visto, le ultime due edizioni segnano un cambio di passo importante. L’anno scorso la vittoria dei Pupi di Surfaro – ospiti di quest’anno, che hanno aperto il Premio con un bel live acustico al club Jazzino – era stata una boccata d’aria fresca: la canzone vincitrice – “Li me’ paroli” – era quanto di più lontano possibile da una certa immagine terzomondista e patinata della world music: un pezzo combat-folk-punk costruito su un loop di elettronica, con un basso distorto a strutturare l’armonia e un cantato, in siciliano, a metà strada tra rap e cunto.
La vincitrice del 2017 – la giovane cantante e autrice sarda Daniela Pes – si è presentata con una spiazzante versione di una poesia di Gavino Pes, alias Don Baignu, prete-poeta settecentesco padre della letteratura in gallurese. La Pes si è guadagnata la vittoria grazie al carisma e a una bella voce graffiante, evitando il rischio dei vari birignao che si portano dietro molte cantanti che arrivano dal jazz, ma è l’arrangiamento a segnare il punto decisivo: prodotta da Christian Marras (anche al chapman stick), con Andrea Pica alla chitarra elettrica e Roberto Schirru, “Ca milla dia dì” va ancora in un’altra direzione rispetto a “Li me’ paroli, (sicuramente meno “etnica”, ma non è detto che sia un male). Fra loop industrial, batterie elettroniche, un riff di chitarra acido, la canzone suona davvero come qualcosa di oggi, qualcosa che potrebbe persino avere un interesse di pubblico al di là della conventicola dei nerd (incluso il sottoscritto) che collezionano vecchie incisioni di folk italiano e parlano con passione dell'ultimo disco di sola ghironda uscito sul mercato.
Questa continuità fra le ultime due edizioni è la prima bella notizia di quest’anno, forse un cambio di passo decisivo nella storia del Premio. La seconda è che la Pes ha vinto con ampio margine, aggiudicandosi anche il Premio della Critica (assegnato dai giornalisti), quello della Giuria internazionale e menzioni per arrangiamento e musica (oltre al Premio dei ragazzi in sala): ed è bello che un brano così "alieno" abbia riscosso un tale consenso.La terza buona notizia è che, al netto della vittoria quasi annunciata (dagli applausi in sala in primis) della Pes, altre proposte interessanti non sono mancate, in un livello medio comunque molto alto. La quarta eccellente notizia è che molte delle cose ascoltate (compresa la vincitrice) sono progetti giovani, o che comprendono giovani, e che ritroveremo certo in futuro sul palco del Parodi – o altrove – in formazioni diverse.
La mia personale seconda classificata è senza dubbio Giuditta Scorcelletti, voce ormai nota del folk toscano, che ha portato una versione intima e raffinata di un’ottava della poetessa contadina Beatrice Bugelli – un po’ Banditaliana per alcune idee armoniche (garanzia la presenza di Ettore Bonafé al vibrafono) – cantata con un piglio da grande interprete di ballate epico-liriche: si è aggiudicata la menzione per la migliore interpretazione, più che meritatamente.
Bella anche la proposta del percussionista siciliano Davide Campisi (“Piglialu”), che forse non ha reso al meglio nella versione dal vivo ma che promette comunque molto, e quella della cantante e autrice brasiliana Daniella Firpo (che si è aggiudicata il Premio D’Aponte International). Degna di approfondimento la proposta dei Rebis (vincitori per il miglior testo) soprattutto per l’uso della lingua araba in un paesaggio sonoro che suona invece molto poco “arabo”.
Leggermente dietro tutti gli altri: la jazz-world un po’ terzomondista di Aksak Project, la proposta più “canzone d’autore” de Il Santo, il minimalismo acustico di Frida Neri. Forse un po’ penalizzato dal numero il tentetto dei Musaica: il pezzo in gara è parso poco a fuoco; molto più interessante la destrutturata versione di “Ruzaju” proposta la seconda sera, che si è meritatamente aggiudicata la menzione per la miglior cover di Andrea Parodi, e che ha infine reso giustizia alla potenzialità di arrangiamento del gruppo.
Archiviati con successo i primi dieci anni, il Premio Parodi si mostra dunque in salute e in crescita. Il merito – ovvio – va all’instancabile lavoro di Valentina Casalena Parodi, presidente della Fondazione e deus ex machina capace di restare sempre in ombra, mai presenza scomoda (e sarebbe facile diventarlo), e alla direzione artistica di Elena Ledda. È una direzione artistica che si percepisce nelle piccole e nelle grandi cose, come la costante attenzione alla voce: quest’anno gli ospiti erano Amira Medunjanin, Luisa Cottifogli e Tenores di Bitti, tre esibizioni strepitose. Non c’è festival senza una vera direzione artistica, e non c’è festival senza la capacità di programmare, e il lusso di poterlo fare anche sul lungo periodo: è questa la quinta buona notizia che arriva dal Premio Parodi 2017. Si è cresciuti, e se si continua così si crescerà ancora.
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