Rajasthan a due facce
Il trio di Afridi Bharti al Teatro Sociale di Gualtieri
Unica data italiana e primo tour europeo per Afridi Bharti Trio, che con Rajasthan Express si dedica a preservare e portare avanti la luminosa eredità della musica della terra dei re e delle regine.
Il giovane leader, a tabla e castagnette, apre con un lungo solo di tabla e poi con il classico solfeggio cantato che molti ascoltatori, almeno della mia età, hanno sentito fare probabilmente per la prima volta, almeno dal vivo, a Trilok Gurtu un venticinque anni fa.
Poi entrano anche gli altri due eccellenti musicisti, Moinuddin Khan a voce e harmonium e Yakub Khan al dolak, una percussione a due pelli che fa parte della tradizione di India, Pakistan, Bangladesh, Nepal e Sri-Lanka ma si ritrova anche in paesi della diaspora dal subcontinente.
Il concerto è una nitida panoramica sul lussureggiante folklore di questa parte del nord dell’India, tra celebrazioni per la nascita di un bambino della famiglia reale, canzoni per i cammelli, fioriture celesti e battiti a cascata delle percussioni che punteggiano un mood estatico, dionisiaco.
In un villaggio sperduto di questa terra di deserti si intonano canti nel primo giorno di un intero mese di festeggiamenti per un matrimonio e i tre ci riportano questo rituale acustico riuscendo a farci vedere questo universo musicale così altro rispetto al nostro. Tra dialoghi a due con le castagnette e inni a Krishna traspare in modo evidente l’amore per questi pezzi che sono alfabeto dei musicisti di quelle zone sin dalla nascita; il cantante e tablista cerca costantemente il coinvolgimento del pubblico che, se inizialmente latita, alla fine si lascia coinvolgere in una danza del serpente che attraversa la platea.
La frenesia tonda della festa, lunghe conversazioni ritmiche che paiono reggersi su un equilibrio sempre molto precario e invece si rivelano sempre esatte e solide, il canto adamantino di Khan che sfiora altezze impensabili e fa pensare in più di un’occasione al qawali dell’indimenticato Nusrat Fateh Ali Khan; una musica apparentemente fatta di poco, quasi niente: una frase di harmonium, infiorescenze vocali a ripetizione e trance ritmica che misura la temperatura di una febbre benefica.
Figlio di Rahis Bharti, vero e proprio ambasciatore della musica indiana e fondatore dei Dohad (noti anche come Gypsies del Rajasthan, di cui anche lui fa parte) e nipote di Ustad Rafeek Mohammed, Afridi si abbevera anche alle sacre fonti della musica sufi dell’India del nord, ripercorrendo le orme di una secolare tradizione culturale, di un folklore che custodisce mondi, all’interno del quale possiamo scoprire storie di traversate nel deserto, segreti tramandati all’ombra di sfarzosi palazzi regali e languori d’amore. Interessante notare come in platea ci sia anche una piccola rappresentanza indiana, che risponde presente agli inviti al canto collettivo fatti da Moinuddin Khan; la bassa reggiana è infatti meta di emigrazione dal Punjab e una folta comunità sikh è presente in vari comuni della zona.
Il semplice ed efficacissimo light design di Mattia Fasolo nel magnifico teatro rovesciato di Gualtieri (un posto dove davvero vale la pena di entrare almeno una volta nella vita, e che merita anche un viaggio apposta, fidatevi) aumenta il potere immaginifico di questi suoni che ci parlano di gioie intime e antiche e ci restituiscono in tutto il suo splendore la potenza e la forza di una cultura millenaria: balsamo per lenire almeno un poco le ferite inferte alla coscienza del cosiddetto primo mondo con il terribile incidente occorso nell’Agro Pontino a Satnam Singh pochi giorni orsono.
Dal Rajasthan di Afridi Bharti alle terre di confine da cui Satnam era emigrato per cercare fortuna in Italia ci sono poco meno di 600 chilometri e 10 ore di strada. Ci si perdoni un poco di retorica, dettata da un po’ di sana ingenuità, che volenti o nolenti forse funge ancora da antidoto al cinismo e all’indifferenza dilaganti, ma ci piace pensare che almeno una di queste canzoni potesse appartenere anche al patrimonio culturale del povero bracciante e che quel ragazzo venuto da così lontano la cantasse in uno dei pomeriggi passati sotto il sole battente a raccogliere ortaggi.
La sua storia, con un finale così tragico, è l’altra faccia della luna delle favole (“Muore giovane chi agli dei è caro”) raccontate dal Trio.
La stagione dei concerti (e non solo) al Teatro Sociale prosegue fino al 20 luglio, quando si chiuderà con il live della cantautrice franco-venezuelana La Chica. Trovate tutti i dettagli qui .
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Racconto dal Premio Parodi 2024, sempre meno "world music" ma sempre più riconoscibile
Il progetto Flamenco Criollo ha inaugurato con successo il Festival Aperto 2024
A Ravenna Festival un trascinante viaggio tra Appennino, Francia e Salento