Chi ha amato "Morte a Venezia" di Thomas Mann per le sue armonie di morte e di sfacelo, per come pietosamente vi si inscena una turpe e grottesca ma pur sempre sacra e terribile tragedia dell'amore, puo' restare perplesso di fronte a "Death in Venice", l'ultima opera di Benjamin Britten, tratta da quel celeberrimo romanzo breve. Paradossalmente, e' come se il tema dell'omoerotia, che velato di reticenza aveva nutrito capolavori assoluti come "Billy Budd", perdesse forza in questa esplicitazione; piu' che all'oramai forse un po' stanca musa britteniana, la sensazione e' legata al rifacimento anche troppo intellettualistico (il libretto e' di Myfanwy Piper), che riduce ad una una sorta di elegante palinodia, ad una serie di monologhi sull'arte, sulla bellezza e sull'amor platonico proferiti dal protagonista, nonche' di "amorose visioni" e trionfi della bellezza e della gioventu', il nodo ben più tremendo della - per dir cosi' - "vendetta di Dioniso" ai danni di von Aschenbach. Anche qui si parla di morte, di sfacelo, di colera, di muffe: ma non se ne sente il sapore. Quel che resta del genio teatrale di Britten trova casomai uno spazio originale, un luogo alto, proprio nelle pieghe di questa rilettura/tradimento (tradimenti del genere costellano peraltro le vicende dell'opera) del romanzo di Mann: la prima scena sulla spiaggia, ad esempio, dove la sportiva bellezza di Tazio (ruolo danzato) e' espressa in segni agili, freddi e neo-neoclassici dal tinnire degli xilofoni e Glockenspiele, una di quelle tipiche situazioni in cui Britten si mostra profeta delle algide estasi minimaliste. Ma qualunque cosa si pensi di "Death in Venice", lo spettacolo del Carlo Felice di Genova che e' approdato in questi giorni al Comunale di Firenze ne trova le chiavi (non per niente ha vinto il premio Abbiati della critica musicale italiana come miglior spettacolo del 1999). Dopo il quadro iniziale ispirato ai famosi cipressi dipinti da Boecklin nell'"Isola dei morti", l'elegante scenografia di Pier Luigi Pizzi (che firma anche la regia e i costumi) riambienta il tutto in una metafisica eleganza anni Trenta: architettura fascista, bagnanti-ginnasti, gli ordini sublimi del gioco, del corpo organizzato, dello sport, con il disegno preciso, leggero, bellissimo dei movimenti dei molti figuranti (veramente toccante quell'apparizione di bambina bionda con aquilone), le non meno belle coreografie di Gheorghe Iancu, e sempre con i funerei ma sereni cipressi sullo sfondo, verso cui cammina Tazio nella scena finale. Una serenita' misteriosa che non e' nel romanzo di Mann, ma e' nella partitura di Britten, la stessa chiave su cui si applica anche la concertazione sobria e come volutamente un po' attutita e brumosa di Bruno Bartoletti, che ha guidato l'orchestra e coro del Maggio Musicale Fiorentino (che canta in buca e fuoriscena e ha provveduto a fornire le numerosissime piccole parti), ed un copioso cast capeggiato dal puntuale piuttosto che intenso Jerry Hadley nel ruolo di von Aschenbach, ma segnaliamo anche Alfonso Antoniozzi per il tour de force di sette ruoli diversi, fra cui il Direttore dell'Hotel e il capo dei suonatori ambulanti (un "cameo" straordinario, questo si' all'insegna di una triviale e demoniaca sfrontatezza), Gabriella Cecchi, la Venditrice di fragole, e poi i bravi Alessandro Riga e Andrea Stasio nei ruoli danzati di Tazio e Jaschiu. Successo ottimo.
Interpreti: Hadley, Antoniozzi, B. Mehta (Riga e Stasio nei ruoli danzati)
Regia: Pier Luigi Pizzi
Scene: Pier Luigi Pizzi
Costumi: Pier Luigi Pizzi
Coreografo: Georghe Iancu
Orchestra: Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore: Bruno Bartoletti
Coro: Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro Coro: José Luis Basso