Natura morta per violoncello e pianoforte
Emanuele Torquati e Francesco Dillon alla Certosa di Firenze per la seconda edizione del festival “Musica e Spiritualità”
Sperimentazione, trascendenza, spiritualità in associazione con la musica e la parola: questo l’ambito del festival realizzato da La Filharmonie, il gruppo fondato e diretto da Nima Keshavarzi e giunto alla seconda edizione (10 – 21 settembre), in un luogo sacro e nobile, la Certosa di Firenze, con la Cappella Santa Maria come sede di questo concerto.
Un duo ancora giovane ma di solidissima fama, solito proporre programmi rari e ricercati, come quello che abbiamo ascoltato e che andava sotto il titolo di “Natura morta”: le due Elegie di Franz Liszt, il breve Schatten di György Kurtág, una sonata per violoncello e pianoforte di Valentyn Syl’vestrov, e quella ben nota di César Franck. Innervati dal filo rosso della spiritualità, i brani venivano presentati con intensità affabile, a iniziare dalle Elegie di Liszt -dal Duo già incise in disco- nelle quali emergeva tutta la sostanza musicale della nuova via lizstiana, quella dell’ultimo decennio di vita a Lipsia e Weimar, così intriso di ispirazione religiosa, e si intuiva nel respiro del suono, nello spessore della visione interpretativa, una lunga consuetudine con i brani lisztiani. Rispetto a questi, l’aforistico Schatten di György Kurtág era il giusto stacco, condividendone sì il tono malinconico o drammatico, ma su presupposti linguistici ovviamente distanti più di un secolo (si è scritto che Schatten derivi da una costola della Settima Sinfonia di Mahler isolata e concentrata).
Con la sonata di Valentyn Syl’vestrov, compositore ucraino finora poco eseguito nei programmi italiani si arriva al 1983. Syl’vestrov nasce nel 1937, e viene definito come un minimalista romantico, per il suo allontanamento dalle asprezze delle avanguardie, allontanamento che condivide con due dei compositori protagonisti della sua generazione, Arvo Pärt e Alfred Schnittke (i tre sono nati a un anno di distanza). Di ispirazione meno meditativa di Pärt, e meno aspra e sarcastica di Schnittke, Syl’vestrov sembra più interessato qui a prendere un tenor, o cantus firmus, di carattere diatonico, semplice, romantico forse, e sommergerlo, frammentarlo, trasfigurarlo in una trama cristallina di quarte e quinte in terzine rapide e nei registri estremi: Syl’vestrov pare seguire una strada di eleganza francese, con qualcosa di raveliano, salvo concludere in modo sorprendente la sonata con il perturbante, l’Unheimliche, le terzine nei registri estremi, che diventano l’elemento principale, come se queste vibrazioni spegnessero l’impulso emotivo e melodico. Il finale per il pianista addirittura è tutto suonato dentro la cordiera, ne esce un timbro percussivo scuro, dissolvente.
Concludeva il concerto la Sonata di Franck, restituita con piglio intenso, ma di eleganza temperata, più che energica e contrastata, una linea interpretativa molto cara a questo duo. Non si poteva che applaudire.
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