Medea, tutti i particolari in cronaca
Simon Stone porta in scena la Médée di Luigi Cherubini in un allestimento sontuosamente contemporaneo al Festival di Salisburgo
Fin dal notevole Tieste di Seneca diretto per il Belvoir di Sidney che l’ha imposto sulla scena europea, il nome di Simon Stone è legato alle grandi figure archetipiche della letteratura drammatica occidentale. Per l’edizione 2019 del Festival di Salisburgo, molto attenta ai miti classici rivisitati in varie stagioni culturali, la scelta di Simon Stone sembrava particolarmente felice sulla carta per la Médée di Luigi Cherubini, tanto più che il regista australiano ha all’attivo il formidabile Lear di Aribert Reimann visto un paio di stagioni fa al festival. Con la figura di Medea, in particolare, Simon Stone si era già confrontato nel 2014, quando aveva firmato un riuscito allestimento della tragedia di Euripide per il Toneelgroep di Amsterdam. Allora, l’attualizzazione operata sul testo originale da Stone dava un risalto straordinario alla formidabile prova della protagonista Marieke Heebink in una scena vuota, bianchissima, lentamente coperta dalla neve nera dei brandelli divorati dal fuoco ultore appiccato dalla furia della donna. Per la produzione dell’opera di Luigi Cherubini, andata in scena nell’immensa scena del Großes Festspielhaus, Stone fa invece ricorso a un grande e sontuoso apparato di ambienti scenografici di Bob Cousins, già autore della scenografia minimalista dello spettacolo di Amsterdam, e di costumi di Mel Page dal taglio contemporaneo e iperrealista oltre che di numerosi inserti cinematografici e sonori, che raccontano la fine di una storia e il suo drammatico epilogo. La storia è quella fra Giasone, professionista salisburghese di successo con la passione per il lusso e le escort, e Medea, la straniera, che la separazione da marito e figli condanna al suo destino di migrante “non grata”. Come in Euripide, Medea è l’estranea, la diversa arrivata da lontano, dalla lontana Colchide, la regione caucasica che oggi è la Georgia, portata dalla promessa d’amore di Giasone nel cuore della civiltà. Come in Euripide, è lei a pagare per il tradimento dell’uomo (nella proiezione durante l’ouverture Medea sorprende Giasone a letto con Dircé nella sontuosa villa “upper class” con vista lago). È lei, l’immigrata, ad essere espulsa e a perdere tutto. Nello squallore di un internet point in una qualche periferia del mondo, è lei a implorare al telefono un contatto con l’uomo in tre lunghi messaggi (la voce è quella di Amira Casar) lasciati nella segreteria di lui, forse inascoltati, mentre lui prepara le nozze con la nuova sposa fra ricevimenti lussuosi e festini a base di sesso. Rifiuto e emarginazione ineluttabilmente gettano il seme del dramma. Medea pugnala Dircé e Creonte durante il banchetto nuziale, scappa con i figli a bordo di un’auto rubata, e giunge al tragico epilogo in una anonima stazione di servizio come tante.
Pur condotto abilmente con un accattivante taglio cinematografico dal passo incalzante nel montaggio di sequenze separate da sipari e inserti audio e video (quasi in assonanza con i blocchi musicali che costituiscono il lavoro di Cherubini), lo spettacolo di Simon Stone soffre del limite di molte regie con l’assillo dell’attualizzazione a ogni costo: ovviamente il punto non è il ritorno al coturno, ma l’universalità del mito viene ridotta a puro fatto di cronaca nera e ne soffre l’intensità drammatica di una vicenda forte come quella di Medea, fatalmente depotenziata. Depotenziata è certamente la Médée di Elena Stikhina, che, malgrado il forte impegno scenico e una prestazione vocale complessivamente riuscita, stenta a esprimere l’enorme forza tragica del personaggio fra internet point, saloni chic, fermate di autobus e pompe di benzina. Non vanno molto al di là dello stereotipo del maschio occidentale gli antipatici Jason di Pavel Černoch e il Créon di Vitalij Kowaljow, entrambi sostanzialmente estranei allo stile francese del lessico cherubiniano. Molto più riuscite, almeno sul piano musicale, le prove dell’intensa Rosa Feola come Dircé e soprattutto di Alisa Kolosova come Néris, capace di sincero pathos nella celebre “Ah, nos peines seront communes” accompagnata dal fagotto.
Sembra puntare soprattutto all’essenza sinfonica pre-beethoveniana più che ai suoi geni gluckiani il Cherubini di questa Médée nella direzione musicale di Thomas Hengelbrock. È soprattutto la neoclassica forza composta dell’elaborato tessuto musicale cherubiniano che si impone all’ascolto nella levigatissima esecuzione dei sempre inappuntabili Wiener Philharmoniker. Non aggiunge forse molto pathos al già cerebrale meccanismo scenico congegnato da Simon Stone, ma è un’autentica gioia per l’ascolto.
Pochissimi vuoti fra gli oltre duemila posti del Großes Festspielhaus alla seconda recita, applausi calorosi con qualche sonoro ma isolato buh, supponiamo, rivolto virtualmente alla regia.
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