L'Orfeo apre Spoleto
Monteverdi secondo Pizzi e l'Accademia Bizantina diretta da Dantone
Strano inizio questo Orfeo, con un corteo di biciclette sulle quali pedalano ragazzi e ragazze vestiti di bianco che entrano nella piazza del Duomo sfilando tra il pubblico e poi scesi si assembrano ai piedi di un lungo praticabile posto a fianco del sagrato per ascoltare il Prologo, e ogni tanto scattare dei selfie con la Musica che in abito da sera si concede sorridente tra una strofa e l’altra del suo canto. Sono i danzatori che poi saluteranno Orfeo ed Euridice entrati in scena come due giovani sposi nel giorno delle nozze, partecipando il clima festoso del primo atto esaltato dal coro di Ninfe e Pastori danzando come tennisti in discoteca sulle note di “Lasciate i monti”. Che sia stato un riferimento alle cronache italiane dell’inizio della settimana?
Per fortuna questa Arcadia postmoderna con l’arrivo della Messaggera (Alice Grasso), portatrice della notizia della morte di Euridice, si è dissipata, rivelando nella sua stilizzazione una natura essenzialmente neoclassica con misurati riferimenti alla tragedia greca. Così l’aitante Orfeo (Giovanni Sala) abbandonando la forzata gioia del quadro iniziale ha rivelato migliori doti interpretative nelle scene di dolore che si susseguono dalla metà del secondo atto in poi, atto che si è concluso con una toccante interpretazione dei Pastori attorno alle spoglie di Euridice (Eleonora Pace). Essenziale e incisiva la messa in scena del terzo atto, nel quale Orfeo accompagnato dalla Speranza (Maria Luisa Zaltron) sulle rive dell’Averno intona il suo struggente canto “Possente spirto” rivolto a Caronte (Mirco Palazzi) per poter scendere nel regno di Plutone (Paolo Gatti), che è una delle più intense pagine della storia dell’opera; così come nel quarto, dove per un momento la pietà e l’amore sembrano regnare negli inferi, ma dove il cantore tracio perderà per la seconda volta e per sempre la sua amata Euridice.
Un sempre più convincente Orfeo , unico protagonista del quinto atto perché di fronte alla biforcazione tra il libretto del 1607 e la partitura del 1609 la regia ha saggiamente scelto di non procedere con il finale apollineo, spinto dal dolore nel suo lamento per rimanere fedele a Euridice si abbandonerà al rifiuto di altre donne.
Nel cast vocale eterogeneo, con voci educate alla interpretazione della musica antica affiancate da voci legate al teatro musicale moderno, ha fatto la sua parte il Coro Costanzo Porta al quale era affidato il ruolo catartico di Ninfe, Pastori e Spiriti infernali.
Curiosamente di questo importante allestimento firmato dal prestigioso Pierluigi Pizzi non è stato distribuito un degno programma di sala, e nelle informazioni riportate sul sito del Festival sono elencati tutti i cantanti, l’intero staff tecnico, comprese sarte, parrucchiere, truccatrici, la ditta del sistema di amplificazione, e persino il calzaturificio, e i danzatori, ma inspiegabilmente non figurano i nomi degli eccellenti musicisti della Accademia Bizantina diretta da Ottavo Dantone. È a loro che in gran parte si deve il successo di questo evento, perché la straordinaria qualità dell’Orfeo di Monteverdi, oltre che nella scrittura vocale, risiede nella sapiente combinazione di timbri della condotta strumentale che sottolinea e valorizza ogni sfumatura della alternanza tra monodia accompagnata e coralità madrigalistica in una miriade di dettagli che fanno di quest’opera un capolavoro ineguagliabile.
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