Le proposte di eccellenza della sesta edizione del festival FloReMus
Il festival FloReMus, il nome sta per Rinascimento Musicale Fiorentino, organizzato dalla Associazione L’Homme Armè, continua a crescere e questa sesta edizione ha confermato la qualità del progetto dedicato prevalentemente alla musica del Quattrocento e del Cinquecento che per evidenti ragioni storiche nella città di Firenze ha una risonanza particolare. I magnifici luoghi in cui si sono svolti i concerti e le conversazioni sono la cornice ideale di una musica profondamente legata ai gusti e agli interessi dei suoi committenti, e che rispecchia in modo profondo e sintetico la cultura del tempo, con le ricche simbologie, speculazioni e utopie dell’Umanesimo. Spesso anche solo una singola composizione racchiude elementi sonori e testuali che rimandano a eventi storici o a contesti filosofici, devozionali o esistenziali, e anche se apparentemente lontana dal frettoloso e rumoroso mondo odierno, ci mette in contatto con qualcosa di ineffabile.
Basta citare l’esempio indicativo di un paio di concerti del suo programma a partire da quello di Cappella Pratensis, che si è svolto il 6 settembre nell’Auditorium di Santa Apollonia e che alla fine è stato salutato da infiniti applausi. L’esecuzione della Missa Maria zart di Jacob Obrecht ha dimostrato che la complessità della elaborazione tematica non è una caratteristica della cultura musicale dal Classicismo in poi, ma che è ben presente nell’arte sonora rinascimentale e anche in precedenza. Come ha spiegato in una conferenza uno dei cantori dell’ensemble, Peter De Laurentiis, il titolo della messa si riferisce alla monodia devozionale mariana utilizzata come cantus firmus, all’epoca molto nota nel mondo tedesco anche per il suo valore apotropaico; sembra infatti che oltre a dispensare trenta giorni di indulgenza al suo ascolto potesse anche allontanare il “morbo gallico” o mal francese che dilagava in quegli anni. Nella messa di Obrecht il tenor è nascosto tra le sue parti e circola tra le varie voci frammentariamente e gradualmente per poi riemergere integralmente, e potremmo dire quasi prepotentemente, nel corso dell’Agnus Dei. Nel suo insieme si tratta di una composizione insolitamente lunga, quasi il doppio rispetto agli standard dell’epoca, dalla scrittura contrappuntistica estremamente variegata, ora densissima ora rarefatta, e data la relativamente scarsa presenza di procedimenti imitativi, per certi versi imprevedibile nel suo andamento complesso anche sul piano mensurale. I cantanti di Cappella Pratensis l’hanno intonata in piedi attorno al grande leggio che sosteneva una copia manoscritta della sua musica (realizzata dal basso del gruppo Marc Busnel a partire dall’unica fonte nota che è a stampa in formato di libro corale), restituendo anche sul piano visivo oltre che musicale la prassi della polifonia vocale liturgica e devozionale così strettamente legata all’arte franco-fiamminga.
Con il concerto dell’ensemble La Fonte Musica che ha eseguito musiche del geniale Zacara da Teramo presentate l’8 settembre nel Museo di San Marco si è tornati indietro di un secolo, ma in quanto a complessità anche in questo caso ci si trova di fronte a qualcosa di straordinario. Questa tarda Ars nova rivela continuamente delle sorprese e lo scriba, miniatore e musico che lavorò a Roma, anche come cantore della cappella papale, ne è uno dei principali artefici. Infatti la sua scrittura musicale in alcuni casi raggiunge punte di complessità ritmica che come ha illustrato in una brillante conferenza il direttore del gruppo Michele Pasotti, nella storia della musica si ritrovano solo a partire dalle avanguardie del Novecento. Il vivido ritratto sonoro del compositore, con i suoi giochi testuali pieni di allusioni, enigmi e simboli, precursore tra l’altro della tecnica della parodia come dimostrano le sue messe costruite sulle proprie canzoni profane, è risultato molto efficace e ha entusiasmato il pubblico anche grazie alla travolgente esecuzione di Ciaramella, che potrebbe essere vietata ai minori di diciotto anni per le allusioni erotiche del suo testo, e al più puro godimento sonoro della danza strumentale del XIV secolo Tre Fontane, eseguita con l’immediatezza e la destrezza di una improvvisazione. Lo stesso pubblico ha poi richiesto applaudendo all’unisono un secondo bis che ha fatto intravedere la qualità e l’originalità di un altro protagonista della tarda Ars nova, attraverso il mottetto Ave sancta mundi salus di Matteo da Perugia, il “magister a cantu” del Duomo di Milano che l’ensemble sta iniziando a mettere in risalto, dopo l’esperienza maturata con lo straordinario lavoro artistico dedicato a Zacara.
Il Festival si è felicemente concluso con il concerto dei padroni di casa, l’ensemble L’Homme Armé, descritto da Elisabetta Torselli.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Saltata la prima per tensioni sindacali, il Teatro La Fenice inaugura la stagione con un grande Myung-Whun Chung sul podio per l’opera verdiana
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento