Le nuvole di Aix-en-Provence
Edizione 2024 un po’ al risparmio ma non di idee, con qualche ripresa, un Gluck seriale, un Rameau reinventato e una novità di Kentridge
Qualche nuvola offusca il cielo di Aix-en-Provence. No, il meteo non c’entra: il clima di luglio nella città provenzale resta ideale con giornate assolate ma serate fresche e il consiglio è di portare sempre una giacca soprattutto agli spettacoli nel cortile del Palazzo arcivescovile. Meno felice è invece il clima finanziario dopo la sontuosa edizione del 2023, quando si sono festeggiati in grande i 75 anni del festival. Le nove produzioni liriche, di cui tre in versione di concerto, sette orchestre ospiti e non fra le meno blasonate e i circa 75 mila spettatori, hanno lasciato un fardello pesante nei libri contabili – c’è chi parla di 4 milioni di debito, chi di 6 milioni su un budget di circa 27 milioni di euro – che obbliga alla prudenza.
Anche se non si può davvero parlare di austerità, qualche segnale di prudenza nella spesa si coglie non tanto nel numero delle produzioni liriche, che sono comunque solo una in meno rispetto all’edizione 2023 con una ripresa (Pelléas et Mélisande nell’allestimento di Katie Mitchell) e una “mise en espace” (La clemenza di Tito, l’unica produzione mozartiana), quanto in una certa parsimonia nelle ospitate di orchestre e soprattutto negli allestimenti particolarmente sobri, incluso quello della Madama Butterfly, per la prima volta al festival (e seconda opera in assoluto del compositore presentata a Aix-en-Provence dopo la Tosca secondo Christoph Honoré del 2019), presentata nell’eleganza di segno della nuova produzione di Andrea Breth, apprezzabile soprattutto per la mancanza dei consueti eccessi floreali di case a soffietto.
Il re è nudo (secondo Barrie)
Davvero emblematico dell’austerità dell’edizione numero 76 è l’insolito “double bill” presentato con il titolo Songs and fragments e allestito da Barrie Kosky sul piccolo palcoscenico del Théâtre du Jeu de Paume. Si inizia con le Eight Songs for a Mad King di Peter Maxwell Davies e si chiude con i Kafka-Fragmente di György Kurtág, il tutto per un’oretta e mezza di musica. Due pezzi privi di una drammaturgia evidente e presentati senza soluzione di continuità su un palcoscenico completamente vuoto e immerso nel buio rotto solo dalle luci affilate di Urs Schönebaum, come nella sua Salome di Francoforte (ripresa a Roma nella stagione appena finita), appena più decorative (ma non troppo) nel pezzo di Kurtág. Il re pazzo del monodramma di Maxwell-Davies del 1969 è re Giorgio III, primo sovrano inglese degli Hannover a essere nato in Inghilterra e a esprimersi in inglese, nonché passato alla storia per la lunghezza del suo regno (dal 1760 al 1820, per un totale di 59 anni e 96 giorni, terzo per lunghezza dopo Elisabetta II e Vittoria) ma soprattutto per i segni di scarso equilibrio mentale manifestati solo pochi anni dopo l’ascesa al trono. Gli otto canti con testi scritti da Randolph Stow utilizzando scritti del sovrano sono frammenti molto diversi di un soliloquio che evita ogni logica o linearità nel racconto. Punta tutto sulle doti performative non comuni del suo straordinario interprete, il baritono Johannes Martin Kränzle, esibito allo sguardo impietoso del pubblico in quasi completa nudità, con unghia lunghe laccate di giallo della mano destra e residui di uno scomposto maquillage all’occhio sinistro. Come la musica che accompagna quei canti, eseguita con estrema ricchezza espressiva dalla sparuta pattuglia di strumentisti dell’Ensemble Intercontemporain freneticamente diretto da Pierre Bleuse, Kränzle sciorina con grande scioltezza vocale quanto scenica la vasta gamma di effetti immaginati dal compositore britannico per il suo interprete unico. Lo stesso trattamento Kosky riserva anche ai Kafka-Fragmente, 40 schegge di musica (da pochi secondi a 7 minuti) ispirate a scritti di origine molto usciti dalla penna di Franz Kafka. Impossibile ricostruire un filo logico o anche solo una traccia narrativa, ma Kosky chiede all’altrettanto straordinaria interprete, il soprano Anna Prohaska in totale complicità di sguardi e di gesti con Patricia Kopatchinskaja, alla quale la semplice definizione di violinista va ormai un po’ stretta. La loro estrema varietà movimenti ed espressioni, esaltata dal sottile gioco di luci, disegna un mondo.
Il nuovo di Kentridge
Se l’edizione 2023 ospitava due novità operistiche, entrambe targate UK e con le firme prestigiose di George Benjamin e Philip Venables, quella di quest’anno presentava un solo lavoro nuovo di difficile catalogazione secondo le categorie tradizionali ma classico frutto del genio visuale di William Kentridge, ospite frequente del festival. Abbandonato per quest’anno il gigantismo dello Stadium di Vitrolles, per la produzione “extra moenia” del 2024 la destinazione era il Parc des Ateliers, antico distretto industriale nella vicina Arles recuperato da qualche anno a contenitore culturale dalla Fondazione LUMA. The Great Yes, The Great No racconta di un viaggio. Il viaggio che ispira Kentridge è quello a bordo della nave cargo Capitaine-Paul-Lemerle che salpa dal porto di Marsiglia nel 1941 in direzione Martinica. A bordo ci sono gli scrittori comunisti André Breton, principe dei surrealisti, Victor Serge e Anna Seghers, l’antropologo Claude Lévi-Strauss e l’“afrocubista” cubano Wifredo Lam: sono tutti animati dalla volontà di lasciarsi alle spalle la Francia collaborazionista di Vichy e l’Europa dei fascismi trionfanti. Ma quella traversata salvifica dell’Atlantico non è che lo spunto per evocare altri viaggi anche più lontani nel tempo e nello spazio per parlare di surrealismo e “negritudine”, incarnati soprattutto nella martinicana Suzanne Césaire, scrittrice, docente e attivista impegnata su temi femministi e anticolonialisti come il marito Aimé Césaire, il cui Cahier d'un retour au pays natal offre più di uno spunto allo script di questa creazione.
Sono cinque le tappe emblematiche di questo viaggio – l’imbarco, la traversata, calma piatta, il circo, la tempesta e l’arrivo – guidato da un Capitano/Caronte, che, come un imbonitore, invita ad imbarcarsi i fantasmi di campioni dell’anticoloniasmo come i suddetti Césaire, le sorelle Nardal, Léopold Sédar Senghor ma anche Josephine Baker e, curiosamente, un’altra celebre Joséphine, nata martinicana da una famiglia di produttori di canna da zucchero con grande impiego di schiavi e destinata a diventare consorte di quel Napoleone (il quale, incidentalmente, nel 1802 ripristinò la schiavitù nei territori d’oltremare dopo la sua abolizione “rivoluzionaria” nel 1794).
Seguendo la rotta incerta di uno psichedelico astrolabio affollato delle immagini tipiche prodotte dell’estro immaginifico di William Kentridge fra personaggi mascherati, uomini moka, surreali collage e immagini di tempi lontani e poco rassicuranti, il percorso si snoda fra proclami e canti tradizionali di uno straordinario coro di vocalists (Anathi Conjwa, Asanda Hanabe, Zandile Hlatshwayo, Khokho Madlala, Nokuthula Magubane, Mapule Moloi e Nomathamsanqa Ngoma) e dei suoi altrettanto straordinari interpreti (Xolisile Bongwana, Hamilton Dhlamini, William Harding, Tony Miyambo, Nancy Nkusi e Luc de Wit) con corredo di danze fortemente evocative (Thulani Chauke e Teresa Phuti Mojela). La firma registica dello stesso Kentridge è condivisa con Nhlanhla Mahlangu, che cura anche la poliedrica playlist della colonna sonora, affidata all’esecuzione di un eccentrico ed estroso quintetto fatto da Nathan Koci alla fisarmonica e banjo, Marika Hughes al violoncello, Thandi Ntuli al pianoforte e Tlale Makhene alle percussioni.
Gran successo. Prossimamente in scena a Lussemburgo e ai Ruhrfestspiele di Recklinghausen ma anche a Miami, Berkeley e Montréal.
Ifigenia al tempo di Netflix
Si dice che la tendenza a produrre film sempre più lunghi sia conseguenza delle serie Netflix. Chissà se c’entra Netflix anche con l’idea di mettere in scena le due Iphigénies di Gluck una di seguito all’altra. Creare un “sequel” con la stessa protagonista cinque anni dopo lo straordinario successo all’Opéra di Parigi della prima Iphigénie nel 1774 contiene già di per sé un’idea di serialità, per tacere della fonte primigenia euripidea e dei successivi remake. E del resto la trovata di aprire la seconda parte con il sogno “flashback” di Iphigénie funziona perfettamente come riassunto della puntata precedente. Per non interrompere un’emozione, al Grand Théâtre de Provence le due opere vengono eseguite senza interruzioni e con una pausa di durata bayreuthiana di 90 minuti annunciata da una enorme “GUERRE” proiettata sul sipario. E nonostante la straordinaria durata della serata – si sfiorano le sei ore, pausa compresa – la proposta funziona senza visibili defezioni nel pubblico. Da ripetere? Il materiale non manca: di trilogie e tetralogie è ricco il mondo dell’opera.
Funziona l’idea, dunque, ma funziona meno lo spettacolo allestito con scarsa fantasia dal regista Dmitri Tcherniakov, che una volta di più interpreta il mito classico come ennesima variazione di dramma di famiglia disfunzionale contemporanea. Molto connotati i colorati costumi di foggia contemporanea di Elena Zaytseva, mentre per la reggia di Micene della prima parte e del Tempio di Diana in Tauride della seconda parte, lo stesso Tcherniakov come scenografo opta per un impianto fisso, con poche modifiche e non strutturali nelle due opere, che riproduce lo scheletro di una grande residenza borghese con pareti trasparenti, con due camere da letto nei due ambienti laterali e ambiente conviviale al centro. Vent’anni dopo, la guerra (quella di Troia) ha mutato radicalmente il paesaggio umano ma non troppo quella casa che non ha più pareti ma solo luci che illuminano il profilo delle strutture. La chioma della protagonista è imbiancata e attorno al grande tavolo che un tempo era quello dove si consumavano i giochi di potere ora si radunano i reduci in cerca di conforto in un tè caldo. Cornice a parte, Tcherniakov non impone grandi torsioni drammaturgiche alle due opere, presentate senza visibili guizzi creativi, semmai esplicita ciò che è comunque implicito nella vicenda, soprattutto sui legami fra i personaggi di quella famiglia reale così tormentata. Ed è proprio Iphigénie che sembra la più distante da quei legami: nel finale della prima opera è infatti Venere la vittima sacrificale di Agamennone, in una curiosa inversione di ruoli con la protagonista, che invece assiste alla cruenta scena dall’esterno della dimora di famiglia. Ma non sembra molto più coinvolta emotivamente nemmeno quando il fratello Oreste con l’amico Pilade giungono in Tauride e vengono destinati al sacrificio per placare la furia degli dèi.
Più ispirata appare la realizzazione musicale affidata alla direzione di Emmanuelle Haïm soprattutto nell’Iphigénie en Tauride, opera ben più articolata e di impatto, mentre l’Iphigénie en Aulide sembra trasmettere soprattutto una gelida compostezza neoclassica. Non mancano i bei momenti, soprattutto nelle danze eseguite con un certo tocco etnico, né passa inosservato l’accurato lavoro sul suono agile e scattante sul suo ensemble Le Concert d'Astrée e sul coro protagonista di una prestazione davvero maiuscola. Non si può dire purtroppo lo stesso del cast vocale a cominciare dalla protagonista Corinne Winters, che pur confermando le sue ottime qualità di interprete sembra piuttosto estranea al mondo di Gluck. Ben più sanguigne le presenze vocaliu e sceniche di Stanislas de Barbeyrac e Florian Sempey, rispettivamente Pylade e Oreste, che rianimano uno spettacolo altrimenti piuttosto anemico anche a costo di un’enfasi talvolta esagerata. Poco da segnalare nel resto della locandina, fatta eccezione per la consueta eleganza che Véronique Gens dona a Clytemnestre, altrimenti ridotta da Tcherniakov a macchietta di donna fatua impegnata in frequenti colpi di lacca alla curatissima chioma.
Il pasticcio di Sansone
La prima mondiale di un’opera di Rameau? Non esattamente. Stando al programma, il Sanson visto al Théâtre de l’Archevêché è una libera creazione di Claus Guth e Raphaël Pichon di un’opera perduta di Jean-Philippe Rameau e di un libretto censurato di François-Marie Arouet detto Voltaire ispirato alla Bibbia (Libro dei Giudici). Ora, se è vero che l’opera non è mai approdata su alcun palcoscenico a causa della censura imposta al libretto di Voltaire per ragioni tutto sommato risibili e soprattutto per il pregiudizio verso il suo feroce anticlericalismo, non è del tutto chiaro che esista una partitura completa scritta da Rameau. Invece, è certo che molte delle idee pensate per Sanson sono finite in molti dei lavori successivi del compositore. Problema: come ricostruire una partitura che verosimilmente non è mai esistita o almeno non come oggetto drammaturgicamente organico? Semplice! Costruendo un pasticcio di musiche autenticamente rameauiane su un libretto scritto per l’occasione che con quello originale di Voltaire condivide solo il soggetto biblico. Insomma, un falso ma con tutti i crismi dell’autenticità.
Nel libretto di Claus Guth la vicenda biblica viene presentata come un flashback: gli eventi a partire dall’infanzia del protagonista fino alla sua fine vengono rievocati dalla memoria incerta dell’anziana madre dell’eroe biblico (che è Andréa Ferréol, l’indimenticabile presenza femminile ne La grande abbuffata di Marco Ferreri). Si parte da lontano e si aggiunge al letale incontro con Dalila quello della relazione amorosa con la filistea Timna, dalla quale lo separerà un atto violento di cui lei resta vittima. Poi il racconto torna in territorio più consueto ai frequentatori d’opera fino alla prigionia e alla carneficina del finale provocata dal suicidio sacrificale del protagonista. Inorridita, la madre si interroga sull’origine e il destino funesto toccato al figlio. Si parla di personaggi della Bibbia, ma è inevitabile vedere in quella violenza quella che, immutata, continua ancora a piagare quelle regioni a distanza di secoli. La guerra incombente si avverte già nell’immagine della sontuosa abitazione squarciata dalle bombe della scena fissa disegnata da Étienne Pluss, che sembra quasi un testimone muto e immutabile di eventi che incrociano passato e presente come in una storia che non finirà.
Quanto sia presente lo dichiara anche di suoni bellici che sovrastano il mosaico di affetti costruito da Raphaël Pichon combinando tessere prese dall’intero catalogo operistico di Jean-Philippe Rameau, da Castor et Pollux, Dardanus, Le Temple de la Gloire, Les Fêtes d’Hébé scelte per il Prologo, passando poi per Zoroastre, Zaïs, Les Surprises de l’Amour, Les Indes galantes, Les Fêtes de Ramire, Les Paladins e altro ancora per i cinque atti del lavoro, secondo l’uso d’epoca. Il risultato è necessariamente frammentario ma cucito insieme abilmente dall’eccellente qualità musicale dei complessi strumentale e specialmente corale di Pigmalion preparati e diretti con perizia stilistica dallo stesso Pichon. Meno felice la scelta delle voci che ha in Jarrett Ott un protagonista Samson di scarso carisma, come anche la Dalila di Jacquelyn Stucker e il (poco) maligno Achisch di Nahuel di Pierro. Molto meglio fa invece Lea Desandre come Timna, la migliore in campo per accuratezza di stile e espressività.
Un successo.
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