Le meraviglie di Sokolov
Beethoven, Brahms e Schumann nel suo concerto a Roma
Da anni, anzi decenni, Grigory Sokolov compare regolarmente - tranne l’interruzione del 2020 e 2021 a causa della pandemia - nelle stagioni cameristiche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Frugando negli archivi si scopre che debuttò a Santa Cecilia più di mezzo secolo fa, nel 1969, a diciannove anni: suonò il Concerto n. 3 di Rachmaninoff, il che lascia pensare che fosse un giovane pianista virtuoso e muscolare come quelli che ora giungono in abbondanza dai paesi dell’ex URSS e che hanno quel pletorico concerto come cavallo di battaglia. Dopo un intervallo di circa vent’anni, durante i quali le sue apparizioni in occidente furono rarissime, ricomparve saltuariamente nell’ultimo decennio del secolo scorso, maturato come interprete ma ancora con una predilezione per pezzi come il secondo Concerto di Rachmaninoff e il primo di Čajkovskij, che gli consentivano di mettere in mostra il suo virtuosismo e la forza delle sue dita. Negli ultimi vent’anni è avvenuta una radicale trasformazione. Ora dà solo concerti cameristici, con programmi incentrati su pezzi tutt’altro che virtuosistici e muscolari di un ristretto numero di autori: Bach, Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Chopin, Schumann e Brahms, più - in una sola occasione - Rameau e Skrjabin. È estremamente schivo, non lascia trapelare nulla della sua vita personale (si dice che abbia una casa in Italia e che soggiorni in Italia per lunghi periodi ma non c’è alcuna conferma di queste voci) e non rilascia interviste neanche su argomenti strettamente musicali. Non dà concerti con orchestra, evidentemente perché questo significherebbe dover venire a patti con visioni interpretative diverse – anche solo leggermente diverse – dalla sua. Non ama incidere dischi, perché teme che alterino il suono del suo pianoforte. È estremamente metodico, per non dire maniacale: non deve essere un caso che venga a Roma ogni anno puntualmente all’inizio della primavera e solo all’inizio della primavera.
Tutto questo vale senza cambiare una virgola anche per un altro pianista, Arturo Benedetti Michelangeli. E c’è dell’altro ancora. Entrambi intransigenti riguardo al silenzio in sala e al divieto di foto e di registrazioni. Entrambi esigentissimi sull’accordatura del loro Steinway: l’altra sera l’accordatore ha accordato il pianoforte - che a noi comuni mortali sembrava perfettamente accordato - durante tutto l’intervallo, che per questo si è prolungato più del solito. E Sokolov è - come era Benedetti Michelangeli - convinto che il divino (e non il diavolo) si celi nei dettagli. Ma anche le differenze tra questi due grandissimi pianisti sono tante, e più importanti di queste affinità esteriori.
Sokolov non è un cultore così estremo del colore come Benedetti Michelangeli, dunque Debussy e Ravel non lo interessano affatto. La sua attenzione è invece rivolta principalmente alle sfumature dinamiche. È indimenticabile come, nell’ottava e ultima delle “fantasie” di Kreisleriana, sotto il ritmo di cavalcata - che costituisce il leitmotiv di questo enigmatico capolavoro di Schumann - gli accordi della mano sinistra risuonavano leggerissimi e impalpabili, quasi impercepibili eppure percepibili. Sokolov pone la stessa attenzione estrema anche alle sfumature di tempo: è indimenticabile come la pausa al centro di un motivo di poche note ripetuto più volte aumentava ad ogni ripetizione, anche in questo caso in modo quasi impercepibile eppure percepibile. Sono innumerevoli questi dettagli di estrema delicatezza ma - quando serve - Sokolov sfodera ancora oggi la forza delle sue dita, come nel Preludio op. 28 n. 20 di Chopin, suonato come bis.
L’indefettibile attenzione di Sokolov a calibrare il suono al millesimo di millimetro non è freddo perfezionismo, perché dalla delicatezza delle dita scaturisce una delicata poesia, come nel sesto pezzo di Kreisleriana, quando Eusebio – come in molte altre musiche di Schumann – si ferma un attimo per un ultimo poetico e commosso e intimo sguardo all’indietro, prima di slanciarsi con la foga di Florestano neln turbinoso finale. E sono poeticissimi dalla prima all’ultima nota gli Intermezzi op. 117 di Brahms, quasi tre studi sull’Andante, la cui luce autunnale, serena ma malinconica, invita a una meditazione sulle cose ultime.
Il rischio è che l’estrema attenzione ai particolari offuschi la forma complessiva del pezzo. Questo può effettivamente accadere (è la stessa critica che si muoveva a Benedetti Michelangeli), per esempio quando esegue le Sonate di Beethoven. Ma in questo suo concerto romano ha presentato pezzi brevi come gli Intermezzi op. 117 di Brahms o anche ampi come le Variazioni e fuga op. 35 di Beethoven e Kreisleriana di Schumann ma divisi in tante brevi sezioni, di ognuna delle quali Sokolov coglieva la specificità, differenziando meravigliosamente l’una dall’altra.
Per lui la grande sala Santa Cecilia del Parco della Musica è tornata a riempirsi (anche se non era esaurita) e il successo è stato enorme. Sokolov, come sempre, non si è risparmiato nei bis e ne ha suonati sei (Brahms, Skrjabin, due Rachmaninoff, Chopin e Bach) ma il pubblico sarebbe rimasto ancora ad ascoltarlo.
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