"Le astuzie femminili” di Cimarosa al Reate Festival
A Rieti e Roma un’ottima esecuzione di uno dei capolavori dell’opera buffa
Il Reate Festival ha portato a Roma Le astuzie femminili di Domenico Cimarosa, che qualche giorno prima aveva inaugurato il festival nel capoluogo della Sabina. Questa “commedia per musica” è stata rappresentata per la prima volta nel 1794 in quel tempio dell’opera buffa che era il teatro dei Fiorentini, a Napoli, dove Cimarosa era tornato da qualche anno, dopo che il successo dei suoi viaggi in tutta Italia e soprattutto a Pietroburgo e Vienna lo aveva reso una celebrità europea, probabilmente il più famoso compositore nel campo dell’opera italiana sia buffa che seria, alla pari con il poco più anziano Paisiello ma senza dubbio molto più del leggermente più giovane Mozart, che d’altronde era già morto da alcuni anni. Fu un grande successo e quest’opera venne ripresa in tutta Italia e nelle principali capitali europee.
Insomma, siamo di fronte ad uno dei capolavori (purtroppo uno degli ultimi) dell’opera buffa napoletana. Non c’è un solo numero musicale che non catturi subito l’attenzione o per la freschezza e la spontaneità della melodia (che è considerata il marchio di fabbrica di Cimarosa) o per qualche idea originale e sorprendente (questa è invece considerata una rarità in Cimarosa, a torto) o per entrambe. Quanto all’eleganza della confezione, perfino Robert Schumann, che non sopportava l’opera italiana, riconobbe che la tecnica di composizione e di strumentazione di Cimarosa era assolutamente magistrale. Aggiungiamo a tutto questo la variegata gamma dei ‘numeri’ musicali, che rifuggono dalla solita successione di arie col ‘da capo’. Per limitarci all’inizio: dopo una Sinfonia molto vivace (che cita un tema russo, evidentemente un ricordo del soggiorno a Pietroburgo) c’è un quartetto di introduzione, quindi un recitativo accompagnato (una rara avis nell’opera buffa) che porta ad un duetto, seguito da un nuovo quartetto e infine arriva la prima aria, che non è però comica ma sentimentale e a tratti perfino drammatica.
Tale libertà dagli schemi abituali potrebbe non colpire particolarmente l’ascoltatore, che piuttosto sarà conquistato dall’originalità spesso seducente e irresistibile delle idee iniziali dei vari ‘numeri’ ma dopo un po’ quell’originalità e quella seduzione cominciano inevitabilmente a perdere smalto per le tante ripetizioni all’interno delle singole parti del pezzo e poi ancora nel ‘da capo’ che lo conclude (non sempre: e anche questo per l’epoca era piuttosto originale) . Similmente lo spettatore attuale difficilmente si appassionerà alle improbabili peripezie dei soliti personaggi dell’opera buffa (la coppia di giovani innamorati, l’uomo maturo che avanza delle pretese su lei, ecc.) nonostante il librettista Giuseppe Palomba, che era un’astutissima volpe dell’opera buffa, abbia fatto di tutto per metterci un po’ di sale e renderle varie, divertenti e sorprendenti. Dunque qualcuno avrà trovato questo capolavoro dell’opera settecentesca non più che “grazioso” e – se non era in uno stato d’animo particolarmente benevolo – perfino “privo d’interesse” (riporto opinioni colte al volo tra il pubblico all’uscita). Ma non si può cercare in un’opera - di qualsiasi epoca essa sia - quello che non può esservi.
L’esecuzione era ineccepibile. Alessandro De Marchi è uno dei direttori del repertorio settecentesco più apprezzati in campo internazionale ed è stato magnifico sia per il suo rigore filologico (esecuzione assolutamente fedele al manoscritto originale, tranne qualche taglio ai recitativi, non solo lecitissimo ma anche opportuno) sia per la duttilità necessaria a far brillare la libertà e l’originalità di Cimarosa. Ottima la risposta della Theresia Orchestra, un giovane ensemble che suona con strumenti originali, internazionale per la provenienza dei suoi musicisti ma con base in Italia, a Lodi.
I cantanti erano tutti giovani, ma già in carriera. Prima dell’inizio la protagonista Eleonora Bellocci ha fatto annunciare una sua “grave e improvvisa indisposizione”, di cui però non ci si accorgeva affatto nel corso del primo atto, tranne forse per un volume un po’ ridotto. Ma tutto era felicemente superato nel secondo atto, quando nella sua cavatina (una cavatina nel secondo atto? Sì, è un altro segnale della libertà di Cimarosa) ha fatto ascoltare una voce cristallina, con acuti squillanti come campanelli, insieme ad una brillante verve d’interprete. Valentino Buzza è un tenore la cui voce sta crescendo (i suoi prossimi impegni sono Verdi e Puccini) ma che riesce ancora a entrare agevolmente nei panni “leggeri” dell’innamorato Filandro, pur non rinunciando ad un paio di acuti a voce un po’ troppo piena. I ruoli veramente buffi erano quelli dei “vecchi”, cioè il pretendente di Bellina e il tutore, interpretati rispettivamente da Rocco Cavalluzzi (l’unico personaggio a cantare in un napoletano buffo e incomprensibile e non in italiano) e Matteo Loi: entrambi erano comici e divertenti e sfioravano il farsesco ma senza cadervi mai. Bravi! Frizzante Martina Licari (Ersilia). Ottima Angela Schisano nel ruolo contraltile di Leonora.
L’allestimento scenico era “elastico”, in modo da adattarsi sia al grande Teatro Flavio Vespasiano di Rieti che al piccolo Teatro Torlonia di Roma. Michele Della Cioppa ha ideato una leggerissima struttura in legno dipinta d’azzurro (un riferimento al cielo e al mare di Napoli?) su cui quattro mimi spostavano degli spezzati di architetture settecentesche e una riproduzione del meraviglioso gruppo Apollo e Dafne del Bernini: era quanto bastava per creare una pressoché infinita varietà di ambienti. Rispettosi dello stile settecentesco i costumi di Anna Biagiotti. Come sempre intelligentemente al servizio della musica la regia di Cesare Scarton, che ha realizzato con delicatezza ed eleganza i (rari) momenti sentimentali e con saporita vivacità quelli comici.
Teatro pieno (ma la capienza del Teatro Torlonia è limitata) e successo molto cordiale.
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