L'Art Ensemble of Chicago a Madrid

Il nuovo Art Ensemble of Chicago per l'apertura del festival jazz di Madrid

Art Ensemble of Chicago - Jazzmadrid foto di Álvaro López / JAZZMADRID.
Art Ensemble of Chicago (foto di Álvaro López / JAZZMADRID)
Recensione
jazz
Madrid, Fernán Gómez - Centro Cultural de la Villa
Art Ensemble of Chicago
06 Novembre 2018

C’è li ricordiamo con il volti dipinti, come guerrieri tribali, a marcare prepotentemente la loro identità africana, erano gli anni ’70: l’Art Ensemble of Chicago, che a quanto pare sopravvive al suo mito, con i suoi 50 anni di storia, con l’unico sopravvissuto della formazione originaria, il sassofonista e flautista Roscoe Mitchell

Si presenta a Madrid, con una formazione che si è rinnovata nel corso degli anni, ad aprire il festival Jazzmadrid 18: ascoltandoli fin dal primo approccio non si può non raffrontare questa esecuzione con il ricordo di una band dal suono estremamente aggressivo, le cui performance spesso sfociavano in un rutilante insieme di percussioni, jazz e afro, con tutti i componenti del gruppo che abbandonavano il loro strumento per imbracciare un djembe, una conga, dei bongos o quant’altro. Fin da allora, questo free così dirompente riusciva a mimetizzarsi, con incredibile sincretismo, sfociando verso territori più tradizionali, del linguaggio jazzistico, con parentesi liriche, temi di ballad, nella ricerca del punto di rottura o se vogliamo di frantumazione di un percorso, che si svolgeva ininterrotto senza soluzione di continuità. Era un punto di vista, una visione, che per certi versi anticipava  lo spirito onnivoro dei nostri tempi e che, con altre caratteristiche, rimane in quello della formazione di oggi.

Nella performance di Madrid assistiamo ad un percorso di composizione graduale di un assunto che procede da suono isolati, in una sorta di puntillismo sonoro, per poi raddensarsi in agglomerati via via più massicci, quindi i soli sfociano come emergenze individuali: un lunghissimo e ipnotico concitato saliscendi di Roscoe, quindi un’oasi lirica di Hugh Ragin con la tromba con sordina.

C’è quindi l’irrompere della voce con il percussionista Dudu Kouyate in un declamato di un testo dai contenuti antirazzisti (prima in inglese poi in italiano) e dopo i grovigli delle voci strumentali ecco apparire temi omofonici, quindi polifonie dense di moti contrari, melodie dalle connotazioni languide e cantabili, elementi di swing; a spezzare un avvincente lungo episodio delle due congas di Famoudou Don Moye e Kouyate, quindi una rassegna di lunghissimi coinvolgenti soli di tutti i componenti, fino a tornare alla fase puntillistica, a scomporre il tutto.

Dopo un’ora netta, quando l’atmosfera e i musicisti cominciavano a scaldarsi, la performance si chiude, solo un breve bis e poi tutti a casa: indubbiamente quelli di un tempo, con performance lunghissime fino a notte inoltrata, erano senz’altro più generosi!

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