L’ammalato di Vinci è immaginario e le donne di Sellitti sono franche

Due rari intermezzi napoletani del Settecento allo Sperimentale di Spoleto

La Franchezza delle Donne (Foto Ludovica Gelpi)
La Franchezza delle Donne (Foto Ludovica Gelpi)
Recensione
classica
Spoleto - Teatro Caio Melisso
Vinci e Sellitti
09 Settembre 2022 - 11 Settembre 2022

Anche quest’anno il Teatro Lirico Sperimentale “A. Belli” ha dedicato uno dei suoi spettacoli agli intermezzi del ‘700, un progetto portato avanti in collaborazione col Dipartimento di Musicologia dell’Università di Milano, che sta realizzando le edizioni critiche di molti di questi piccoli gioielli, fino a non molto tempo fa quasi totalmente dimenticati, ad eccezione della Serva padrona  e di pochissimi altri. Quest’anno erano in cartellone L’ammalato immaginario  di Leonardo Vinci, già presentato lo scorso anno, e La franchezza delle donne  di Giuseppe Sellitti, che era invece una prima esecuzione in epoca moderna nell’edizione critica di Antonio Dilella.

Leonardo Vinci è uno dei grandi della scuola napoletana, come dimostra anche il fatto che tra il 1726 e il 1730 - anno della sua precoce morte - Metastasio scrisse per lui i suoi drammi seri, poi messi in musica anche da innumerevoli altri compositori. Proprio la fama acquisita nell’opera seria indusse Vinci a mettere da parte le più modeste “commedeje pe’ mmuseca” in dialetto napoletano, che pure gli avevano assicurato grandi successi nei primi anni della sua carriera. Però anche i drammi seri offrivano spazi per coltivare la sua vena comica: erano gli intermezzi, come L’ammalato immaginario,  che fu rappresentato nel 1726 negli intervalli dell’Ernelinda.  Il titolo rimanda chiaramente alla commedia di Moliére, ridotta però dall’anonimo librettista alle situazioni (l’amore improbabile tra un vecchio e una giovane donna scaltra, i bisticci, i travestimenti) tipiche dell’opera buffa napoletana.

Venendo al dunque, l’ascolto di questo intermezzo ha un po’ deluso le aspettative, probabilmente anche in conseguenza dei pesanti rimaneggiamenti a cui l’originale è stato sottoposto. Infatti gli scrupoli filologici, che sembrava di poter riconoscere nell’adozione dell’edizione critica approntata da Gaetano Pitarresi, sono stati vanificati dall’inserimento di alcuni brani strumentali (non di Vinci) e soprattutto di due lunghe arie serie prese dall’Ernelinda di Vinci stesso, belle ma totalmente fuori luogo. Sicuramente anche all’epoca gl’intermezzi venivano rimaneggiati con grande libertà, ma il modo con cui lo si è fatto questa volta appare profondamente sbagliato, perché con queste aggiunte l’intermezzo di Vinci, già di per sé poco vivace e frizzane, è diventato ancor più statico e serioso. A ciò contribuiva anche l’esecuzione. Il soprano Jennifer Turri ha delle discrete qualità ma la sua linea di canto era piuttosto rigida e il timbro della sua voce inadatto ad un ruolo brillante: insomma il repertorio buffo non è per lei. Probabilmente i tempi piuttosto lenti e metronomici del direttore Pierfrancesco Borrelli erano stati scelti in funzione delle caratteristiche della protagonista femminile, perché poi abbiamo ascoltato anche la recita successiva e la direzione scorreva in modo più vivace. Questa volta la protagonista era Elena Finelli, spigliata e ammiccante, come devono essere i personaggi degli intermezzi napoletani. In entrambe le recite di cui qui si riferisce, Il protagonista maschile era Matteo Lorenzo Pietrapiana: ha voce gradevole, canta con stile, è un discreto attore ma nel complesso appare un po’ troppo misurato, mentre in questi intermezzi si può anche esagerare con la comicità, sulla scia degli ultimi grandi comici napoletani come Peppino De Filippo, Nino Taranto e Totò.

Il secondo intermezzo era La franchezza delle donne  di Giuseppe Sellitti, compositore all’epoca noto e apprezzato ma ora pressoché sconosciuto, tanto che non si è certi nemmeno del suo nome: Sellitti o Sellitto? A differenza di Vinci, fu solo sporadicamente chiamato a comporre opere serie per i teatri di corte di Napoli e delle altre capitali dell’epoca e fu attivo soprattutto nel genere più dimesso dell’opera buffa. In tale campo si muove con grande abilità e con perfetta conoscenza dei meccanismi e dei tempi giusti, almeno stando a questo intermezzo, che può appoggiarsi ad un libretto di Tommaso Mariani particolarmente ben congegnato, molto più vario e sagace di quello toccato in sorte a Vinci. Le situazioni sono più o meno le solite, ma cucinate con ingredienti diversi: per esempio, i due innamorati che bisticciano sono in questo caso entrambi giovani, anche se è sempre lei che alla fine risulta più furba ed ha la meglio. Una particolarità è l’abile sfruttamento degli effetti comici che nascono dal contrasto tra la lingua italiana e il dialetto veneziano, usato dal protagonista maschile quando si traveste da gondoliere. Nella scena finale si danza una furlana e si canta in dialetto friulano, che al pubblico napoletano sicuramente suonava incomprensibile, esotico, buffo: in realtà il pubblico napoletano del 1734 non l’ascoltò, perché si tratta di un’aggiunta ideata per queste rappresentazioni, che - a differenza delle arie serie aggiunte all’intermezzo di Vinci - si inserisce benissimo nello spirito dell’intermezzo.

Il perfetto ingranaggio comico della Franchezza delle donne  rendeva relativamente facile il compito degli interpreti, che a loro volta hanno reso il favore dando il loro contribuito a far sì che questa pièce  di non grandi pretese apparisse un piccolo capolavoro del genere buffo. La direzione di Pierfrancesco Borrelli questa volta era vivace e mossa e intesseva un dialogo serrato con il palcoscenico. La prima sera la protagonista femminile era la giovanissima (ma tutti i cantati dello Sperimentale sono giovani) Elena Antonini, la cui voce limpida e luminosa si spinge facilmente nel registro acuto (ma mai troppo acuto) preferito da questo personaggio. La recitazione vivace e comica, ma garbata, completa il ritratto di una giovane cantante che sembra nata per questo repertorio. Il giorno dopo era in scena Elena Salvatori, che è un’attrice più marcatamente comica e canta altrettanto bene, ma i suoi acuti sono un po’ troppo pungenti. Il protagonista maschile era una volta Davide Romeo, baritono dalla voce chiara e duttile, e l’altra volta Davide Peroni, con caratteristiche vocali simili ma con un suo estro buffo che gli ha fatto pensare di cantare le parti in dialetto veneziano con marcate inflessioni marchigiane (lui è di Ascoli) così come l’interprete della prima napoletana del 1734 l’avrà sicuramente cantate con accento partenopeo.

Il regista Andrea Stanisci ha trasportato l’intermezzo di Vinci in epoca moderna e ha lasciato quello di Sellitti al suo strampalato Settecento, cercando però in entrambi i casi di rileggere con gusto moderno ad un tipo di comicità inevitabilmente un po’ datato. Il risultato è stato modesto nell’Ammalato immaginario,  ascoltato in un silenzio troppo compunto, mentre più felice è stato l’esito dell’intermezzo di Sellitti, punteggiato dalle risate del pubblico. Ma al momento dei ringraziamenti finali gli applausi sono stati calorosi per tutti gli interpreti, giustamente, perché tutti si sono impegnati a presentare queste due operine nel migliore dei modi possibili.

 

 

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Ad Amsterdam Romeo Castellucci mette in scena “Le lacrime di Eros” su un’antologia di musiche del tardo rinascimento scelte da Raphaël Pichon per l’ensemble Pygmalion 

classica

Madrid: Haendel al Teatro Real

classica

A Roma, prima con i complessi di Santa Cecilia, poi con Vokalensemble Kölner Dom e Concerto Köln