L’addio, o piuttosto l’arrivederci di Antonio Pappano a Roma
L’ultimo suo concerto romano in qualità di Direttore Musicale di Santa Cecilia
Antonio Pappano ha diretto il suo ultimo concerto a Roma (ce ne saranno però ancora alcuni in tournée) come direttore musicale dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: era annunciato da tempo, ma per i musicofili romani è stato comunque un momento commovente. E come poteva essere altrimenti, dopo che il direttore italo-anglo-americano è stato alla guida dell’orchestra e del coro romani per 18 anni, durante i quali ha diretto più di settecento (!) concerti, ha inciso trentaquattro dischi e effettuato decine di tournée nelle maggiori sale da concerto e festival di tutto il mondo: per gli amanti delle statistiche sono state undici le tournée a Francoforte, sette a Vienna, Londra e Amburgo, sei a Parigi, Milano e Monaco di Baviera, quattro a Salisburgo, eccetera eccetera (e spesso nel corso di una tournée i concerti nelle singole città erano più d’uno). Ma gli anni e il numero dei concerti non significherebbero molto, se non si fosse instaurato un rapporto specialissimo - un amore come questo, senza una sola baruffa o un solo momento di tensione, nella vita normale non capita mai - tra Pappano e il pubblico romano, che normalmente è piuttosto scettico, si “stufa” presto e dopo due o tre anni già comincia a stancarsi dei direttori musicali, spesso eccellenti, che giungono a Santa Cecilia o all’Opera.
Pappano stesso ha spoilerato che tornerà tre volte nella prossima stagione, per La Gioconda di Ponchielli in forma di concerto, la Messa da Requiem di Verdi e un concerto di musica sinfonica italiana del Novecento. Dunque non è stato un addio per sempre, ma il pubblico si è alzato in piedi per salutarlo con commozione ed affetto in occasione di tutte e tre le repliche di questo concerto. E come si poteva resistere quando Pappano al suo ingresso in sala si è rivolto alla platea con il suo proverbiale esordio “caro pubblico”? Ha infatti preso la parola per introdurre brevemente la prima esecuzione assoluta in programma, come fa sempre, in questo caso aggiungendovi anche un saluto al pubblico piuttosto affettuoso ma molto british, senza lacrimuccia.
La novità assoluta di cui sopra era Dosàna nova di Claudio Ambrosini, un titolo assolutamente incomprensibile per i romani e probabilmente per chiunque non sia cresciuto nelle immediate vicinanze della laguna veneta: come hanno spiegato Pappano a voce e il compositore stesso nel programma di sala, è la marea calante, che due volte al giorno porta l’acqua della laguna a mescolarsi con quella del mare aperto. “Dosàna nova – scrive Ambrosini - è anche una riflessione su Venezia e sul fatto che, metaforicamente, la città ogni giorno accolga l’acqua del mare (la natura) e gliela restituisca dopo che ha attraversato i suoi canali (la storia, la cultura), ‘colorata’ dei riflessi delle sue case e dei suoi palazzi. La dosana che qui si immagina è quindi mobile, ricca di colore, di energia positiva, auspicabilmente l’onda nuova di una rinascita”.
Non saprei dire come, ma a tratti si avverte la magia di questo arcano connubio secolare tra la città meravigliosa e il mare in cui è immersa, ma quel che maggiormente emerge da questo brano è il virtuosismo della scrittura orchestrale di Ambrosini, che si basa quasi interamente su due “temi” ascoltati proprio all’inizio: un suono lungo e grave della grancassa ed uno corto ed acuto ottenuto sfregando un foglio di carta vetrata ed allo stesso tempo soffiandogli sopra. Questi suoni vengono variati, passano ad altri strumenti, ma tutta la composizione discende da loro, creando un mondo sonoro magico e leggero in cui affiorano continuamente timbri e dettagli sempre cangianti, che in qualche modo si ricollegano – ma senza il minimo descrittivismo pseudo impressionista – all’incessante moto dell’acqua della laguna e agli infiniti riflessi della luce sulla sua superficie. È soltanto una coincidenza che lunedì prossimo Maurizio Pollini eseguirà in questa stessa sala …..sofferte onde serene… di Luigi Nono.
Seguivano i Quattro ultimi Lieder di Richard Strauss, con un’ospite d’eccezione, il soprano lituano Asmik Grigorian, che a Roma avevamo ascoltato una sola volta, in una Madama Butterfly dura ed esacerbata fuori ma fragile e spezzata dal dolore dentro. Di lei dicono meraviglie coloro che l’hanno vista a Salisburgo in Elektra (nel ruolo di Crysothemis) e soprattutto in Salome ma, pur essendo uscite dalla penna dello stesso autore, queste due opere sono agli antipodi dei Quattro ultimi Lieder. E non rassicurava che Le Monde avesse definito la sua voce “selvaggia, brunita”, proprio quel che non ci vorrebbe per questo sereno e rassegnato congedo di Strauss dalla vita. E invece anche questa volta la Grigorian è stata splendida, capace di un’intensità espressiva contenuta, che entrava nel cuore dell’ascoltatore e non lo lasciava più, in un crescendo emotivo che poteva giungere fino alle lacrime nel Lied finale, In Abendrot (Al tramonto). Eppure era un’interpretazione molto sorvegliata, senza nulla di melodrammatico, senza la minima ombra di patetismo, senza neppure il ricorso al fascino puramente emotivo della voce, che qui potrebbe ammantarsi dei dolci colori primaverili e dei riflessi dorati del tramonto autunnale (chiara metafora delle fasi della vita umana) per vincere facilmente ogni resistenza anche dell’ascoltatore più tetragono ad ogni emozione. Un’interpretazione quasi sussurrata (ma che giungeva chiara fino in fondo alla sala), giocata sulle mezze voci, con grande attenzione agli splendidi versi di Hesse e Eichendorff ma soprattutto alla meravigliosa linea melodica di Strauss. Pappano ha evitato tempi estenuati e colori troppo preziosi per per non cadere nel sentimentalismo da una parte o nell’estetismo dall’altra – in questo era sulla stessa lunghezza d’onda della Grigorian - e ha semmai dato ha un tono leggermente distaccato, elevato e nobile a quest’estremo capolavoro del grande e vecchio Maestro.
Concludeva il concerto la Sinfonia n. 10 di Dmítrij Šostakóvič, scelta per quest’occasione da Pappano perché l’aveva diretta nel suo primo concerto romano e in quell’occasione – ha detto –si era reso conto fin dai primi minuti di prova che c’era un’intesa speciale tra lui e l’orchestra. Quest’ora di musica richiede un grande impegno mentale e anche fisico all’orchestra e al direttore, che ne hanno dato una lettura possente e grandiosa, mettendone in rilievo i forti e improvvisi contrasti drammatici, un po’ a detrimento di quei toni grotteschi che servono a mettere nella giusta luce i momenti tragici.
Successo caldissimo, affettuosissimo, prolungatissimo. Arrivederci a presto, Sir Tony.
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