La Tosca dei nostri sogni
Daniel Harding ha iniziato con Puccini la sua prima stagione come direttore musicale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
La Tosca nell’Auditorium Parco della Musica? Un’opera così teatrale eseguita senza scene e con i cantanti in frak, che si limitano ad entrare e uscire, senza fare un solo gesto o facendo soltanto quei minimi gesti che sono insopprimibili quando si canta? Non per nulla quest’opera non era mai stata eseguita all’Accademia di Santa Cecilia, i cui complessi l’hanno però incisa tre volte. È vero che Santa Cecilia ha una lunga tradizione di opere in forma di concerto, ma erano opere di grande spessore sinfonico, come quelle di Wagner, o opere che in Italia non si vedono praticamente mai in teatro e quindi l’esecuzione concertistica era un surrogato tutto sommato accettabile. Ma recentemente è toccato anche a La bohème (diretta da Bernstein) e poi a Un ballo in maschera, Don Giovanni, Aida, Turandot (dirette da Pappano) e ad ancora altre opere che sembrerebbero dover inevitabilmente perdere qualcosa, se eseguite in forma d’oratorio.
Invece non è affatto così. Gli occhi si annoiano ma le orecchie festeggiano, perché ascoltano cose che in teatro o sfuggono totalmente o non sono valorizzate altrettanto bene che in sala da concerto. E questo avviene anche perché l’orchestra e il coro di Santa Cecilia stanno alla pari con quelli dei maggiori teatri del globo e per di più non sono giù nella buca (che è stata inventata da Wagner) e ogni singola nota giunge chiara alle nostre orecchie, anche nei momenti più intricati. E avviene anche perché i cantanti possono concentrarsi totalmente sulla musica e non sono distratti – per così dire – dalla recitazione, che spesso non è il loro forte. L’ascoltatore può a sua volta concentrarsi totalmente sulla musica, che già da sola gli invia una raffica di stimoli che quasi sopraffà le sue capacità di ricezione razionale ed emotiva, tanto che si vorrebbe ascoltarla più e più volte per godere di tanta abbondanza.
Questa Tosca è diretta da Daniel Harding, che fa così il suo debutto come successore di Pappano in qualità di direttore musicale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ed è anche il suo debutto in Tosca (di Puccini finora aveva diretto soltanto Il Tabarro ). Certamente non sembra un debuttante. Fin dalle prime battute dimostra di conoscere profondamente la partitura e di saper valorizzare perfettamente l’orchestrazione di Puccini, la sua raffinatezza e modernità così come la sua potenza espressiva e drammatica. Dominano i momenti in cui tiene l’orchestra leggera, trasparente, delicata: meravigliosi. E in Tosca ce ne sono più di quanti sospettassimo. A questi momenti si contrappongono i fortissimo con quattro o cinque ‘f’. L’effetto acustico è impressionante ma talvolta si corre il rischio che questi netti contrasti frammentino la continuità della tensione drammatica.
Abbiamo ascoltato Tosca innumerevoli volte ma questa volta abbiamo ascoltato meraviglie mai sentite. Possono essere squarci di pochi istanti o momenti più ampi, come tutto il finale del secondo atto, dal momento da brivido in cui Tosca vede il coltello poggiato sul tavolo in poi, ma possono anche durare un atto intero, precisamente il terzo. Impossibile descrivere le meraviglie che Harding ha tratto da quella mezz’ora di musica, liberandole da quella patina vecchiotta che la routine ha depositato su quest’opera forse più che su qualsiasi altra. Per fare un esempio, il cupo brusio dei contrabbassi, leggeri e allo stesso tempo minacciosi e presaghi di morte, quando, dopo il preludio, l’entrata in scena del carceriere dà inizio all’azione, che si concluderà col salto di Tosca dalla piattaforma di Castel Sant’Angelo.
Che possiamo dire di Eleonora Buratto? Che abbiamo trovato la Tosca dei nostri sogni! Fin dalla sua entrata in scena non si presenta come una virago ovvero come la caricatura di una matronale diva dell’opera: la sua Tosca è invece una giovane donna, spontanea, fragile e insicura, che non sempre sa controllarsi, quindi è naturalmente gelosa. La Buratto usa con grande intelligenza e varietà di sfumature una voce di soprano lirico più che drammatico, che può flettersi ad intenzioni interpretative articolate, acute e delicate, ma sa anche sormontare senza sforzo apparente le squassanti ondate sonore scatenate talvolta da Harding. Il suo “Vissi d’arte” è la meditazione sconfortata di una donna che scopre dolorosamente la dura realtà della vita, da cui credeva che la sua arte l’avrebbe tenuta al riparo. Non può essere descritta a parole la sua disperazione, quando si accorge che Mario è stato realmente fucilato e reale e non si è trattato di una messa in scena: “Mario! Mario! Mario! […] Così? Finire Così? […] Povera Floria tua!”. È un dolore straziante, lacerante, che viene dalle viscere e prende alle viscere. E quando si getta giù dalle mura non c’è nulla di teatrale, è una scelta immediata, che non dà il tempo di mettersi in posa: in questo l’assenza della scena aiuta, perché inevitabilmente in teatro quel finale diventa un po’ retorico.
Il tenore Jonathan Tetelman ha voce notevolissima, brunita, sicura, potente. L’interprete invece è debole, generico, sciatto. La sua dizione italiana è ammirevole e fa capire ogni parola ma si direbbe che proprio lui sia l’unico a non capire quello che canta: non c’è infatti una sola intenzione espressiva. È un canto uniforme, piatto, che si muove tra il forte e il fortissimo. Spara a piena voce sia frasi o parole che effettivamente richiedono un’energia quasi eroica e guerresca (“Vittoria! Vittoria”) sia frasi assolutamente anodine (“Ti dirò”, nel duetto con Tosca del primo atto). Ma gli acuti sono veramente impressionanti. E nel terzo atto finalmente si sente qualche sfumatura e si avverte qualche intenzione espressiva.
Ludovic Tézier è agli antipodi di Tetelman. Sappiamo per esperienza che ha una belle e nobile voce di baritono ma per interpretare Scarpia ricorre al declamato – che talvolta diventa uno sprechgesang a metà strada tra cantato e parlato – per dare risalto a ogni singola parola di quell’essere perfido, infido, lubrico, falso e via seguitando. Un tale tipo di canto, così come le risate e risatine diaboliche che Tézier sparge a piene mani, un tempo sarebbe stato definito verista. In conclusione il divario stilistico tra i tre protagonisti è decisamente eccessivo e Il direttore avrebbe dovuto cercare di ridurlo.
Giorgi Manoshvili è un lusso nella parte di Angelotti: in questo caso lusso non è sinonimo di spreco, perché, se cantato così, anche un personaggio secondario assume un rilievo insospettato. Ottimi anche gli altri comprimari: Davide Giangregorio, Sagrestano più ruvido e meno viscido del consueto, Nicolò Ceriani (Sciarrone), Costantino Finucci (Carceriere) e Matteo Macchioni (Spoletta). Senza dimenticare il pastorello di Alice Fiorelli.
Successo al calor bianco per tutti, inclusi – e quanto giustamente! – orchestra, coro e coro di voci bianche dell’Accademia di Santa Cecilia. Si potrà riascoltare questa Tosca grazie a Raiplay e, un po’ più in là nel tempo, alla pubblicazione in cd da parte dell’etichetta gialla.
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