La Ruhrtriennale celebra la bellezza fra le macerie della civiltà industriale

La prima edizione di Ivo Van Hove apre con successo con un musical su brani di PJ Harvey, un omaggio a Paradžanov, il debutto del barocco di Venables e Huffmann e De Keersmaeker nel museo

I Want Absolute Beauty (foto Jan Versweyveld)
I Want Absolute Beauty (foto Jan Versweyveld)
Recensione
classica
Bochum, Essen, Duisburg
Ruhrtriennale 2024
16 Agosto 2024 - 15 Settembre 2024

“Longing for tomorrow”, anelare al domani: è il motto scelto da Ivo Van Hove per il suo primo dei suoi tre anni alla guida della Ruhrtriennale, il grande “festival internazionale delle arti” che da 22 anni ridà vita, anche se in forma diversa, ad alcune delle cattedrali ormai abbandonate della Germania del carbone e dell’acciaio. Parlare di futuro fra le rovine e i fantasmi della civiltà industriale non potrebbe creare contrasto più drammatico. Fantasmi, come quelli resi visibili a Bochum, nella Turbinenhalle, nell’installazione City of Refuge IV dall’artista Berlinde De Bruyckere, che negli stessi giorni l’artista belga fa palesare anche nella purezza di linee dell’architettura palladiane della Chiesa di San Giorgio a Venezia (e anche qui contrasto non potrebbe essere più stridente). Nel silenzio mortifero di quei grandi apparati industriali inerti da decenni le figure umane dal volto coperto rievocano tutti coloro che hanno abbandonato la propria casa e gli affetti per costruirsi un futuro meno disperato. Nella Ruhr di allora, come in tanti altri luoghi del mondo oggi.

Nel weekend inaugurale, affollatissimo di pubblico variegatissimo, non si parla solo di futuro ma anche, e molto, di bellezza, declinata secondo linguaggi espressivi molto diversificati. La bellezza torna spesso nelle parole di Édouard Louis, giovane scrittore francese di grande successo (e complice di celebrate performance teatrali firmate da registi dell’impegno come Thomas Ostermeier e Milo Rau), che, nel primo incontro della serie “Brave New Voices” sollecitato dalle domande di Fatima Khan, racconta la bellezza come approdo da un percorso fatto di violenza subita, da giovane adolescente omosessuale, negli ambienti operai della provincia francese.

Y (foto Katja Illner)
Y (foto Katja Illner)

 Bellezza è movimento nel lavoro Y di Anne Teresa De Keersmaeker allestito in alcune sale del Museum Folkwang di Essen. In questa insolita installazione coreografica negli spazi luminosi dell’edificio firmato da David Chipperfield, il movimento nasce da alcuni capolavori conservati nel museo in una sorta di dialogo con i cinque danzatori della compagnia Rosas, Nassim Baddag, Jean Pierre Buré, Synne Elve Enoksen, Nina Godderis e Robson Ledesma, che riprendono alcuni segni o spunti ispirati dalle immagini fissate sulla tela o sulla carta fotografica per trasformarli in gesto coreografico. Partendo dal celebre Portrait de Faure dans le rôle d’Hamlet di Édouard Manet – quasi un’epitome della domanda delle domande formulata dal protagonista della tragedia shakesperiana – la coreografa belga esplora il potenziale delle domande poste dall’opera d’arte e si interroga sulla relazione fra arte figurativa e arte astratta attraverso una articolata gamma di espressioni coreutiche davanti ai paesaggi montuosi di Caspar David Friedrich opposti alle geometrie essenziali di Morris Louis, alle sculture muscolari di Rudolf Belling, alle provocazioni figurative di Oliviero Toscani o alle astrazioni sospese di Mark Rothko. Come in una insolita mostra di movimenti, il pubblico è invitato a costruire il suo percorso fra le diverse opere e performance costruendo il proprio percorso con l’accompagnamento dal suggestivo “soundscape” curato da Alain Franco che assembla frammenti di composizioni classiche, musica pop e contemporanea con un evocativo mosaico di suoni e di voci che vogliono essere frammenti di una memoria condivisa. 

 

La bellezza è anche nel titolo dello spettacolo inaugurale di questa nuova Ruhrtriennale: I Want Absolute Beauty. Il titolo viene da un frammento di intervista della cantautrice britannica PJ Harvey: Ivo Van Hove, regista dello spettacolo, lo ha scelto perché “dà speranza nel futuro”, un futuro che, nelle sue parole, splende sempre nelle canzoni di PJ Harvey e non è mai disastroso perché lo annuncia “un’ondata di bellezza”. Per questa nuova insolita impresa artistica, presentata con grande successo alla Jahrhunderthalle di Bochum, la cantautrice e il regista si ritrovano, dopo qualche collaborazione (fra queste, la rivisitazione del classico hollywoodiano All About Eve per il West End londinese nel 2018, per il quale PJ Harvey ha composto le musiche, poi pubblicate in un album nel 2019). Come in Tommy, la vecchia opera rock degli Who con il frontman Roger Daltrey protagonista (anche della trasposizione cinematografica di Ken Russel), I Want Absolute Beauty è costruita interamente su un’antologia di 26 canzoni di PJ Harvey tratte dai suoi album, assemblate senza un criterio cronologico ma secondo una drammaturgia in quattro capitoli: crescita, amore e delusioni personali e politiche, “big exit”, ritorno a casa. Un po’ opera rock e un po’ musical, I Want Absolute Beauty racconta un percorso di formazione, nel quale non è difficile trovare tracce biografiche della stessa cantautrice, dal rapporto conflittuale con il proprio Paese provocato dalla vocazione imperial-militarista britannica, alla fuga prima a Londra e poi a New York in cerca di nuove esperienze ed emozioni forti, fino alla riconciliazione con il proprio passato e il ritorno ai paesaggi della giovinezza del Devon. La scena (di Jan Versweyveld, che firma anche lo psichedelico disegno luci) è una grande distesa coperta di terra, con lampioncini sui due lati e una parete di specchi sul fondo. Un grande LED-Wall sospeso rimanda immagini live riprese dall’alto ma anche paesaggi urbani notturni o le falesie del Devon, tappe dell’itinerario esistenziale della protagonista (i video sono curati da Christopher Ash). E, in mezzo alla scena, un albero che, da esile arbusto, cresce via via fino a diventare altissimo e solido.

I Want Absolute Beauty (foto Jan Versweyveld)
I Want Absolute Beauty (foto Jan Versweyveld)

 

Nell’insolita veste di cantante, grintosissima interprete “vocale” quasi unica (c’è una breve apparizione in video di Isabelle Huppert quasi come una Madonna laica) è l’attrice Sandra Hüller, candidata agli ultimi Oscar per il film Anatomia di una caduta di Justine Triet, accompagnata dalla rock band guidata alle tastiere da Liesa Van der Aa con il chitarrista Neil Claes, il sassofonista Alban Sarens e la batterista Anke Verslype. Il movimento è assicurato dalle coreografie del collettivo (LA)HORDE (ossia Marine Brutti, Jonathan Debrouwer e Arthur Harel) intonate al tono narrativo ma piuttosto sbilanciato sul modello musical di impegno e interpretate dagli straordinari danzatori Casper Tveteraas Hauge, Efua Maria Aikins, Emma Savoldelli-Harris, Evan Sagadencky (anche cantante in duo con Hüller per This Mess We Are In), Jens van der Pijl, Louka Gailliez, Luca Völkel, Nahimana Vandenbussche, Sarah Abicht, Timothy Firmin e Tristan Sagon e dalla stessa Hüller. 

La bellezza si trova ovunque, magari anche fra “ricami dell'Europa orientale, miniature persiane, mosaici pompeiani, film muti in bianco e nero, ricordi dell'infanzia a Tbilisi, sogni colorati, oggetti d'antiquariato, i segreti dei tappeti, la musica di Verdi, Puccini e Massenet, i canti degli Hutsul o le canzoni popolari georgiane”. È proprio là che la cercava Sergej Paradžanov, grande cineasta georgiano scomparso nel 1990 dopo una vita trascorsa a lottare contro le persecuzioni delle autorità sovietiche per le sue scelte estetiche e i temi non conformi ai canoni ufficiali. Lo ricorda Kirill Serebrennikov, autore del monumentale Legende, oltre quattro ore di grande teatro, presentato alla Kraftwerk nel Landschaftpark di Duisburg. Che Serebrennikov guardi a Paradžanov, oggi autore di culto per pochi cinefili professionisti, non sorprende: li unisce un’affinità di destini invisi al potere e la lotta per un’arte libera dove libera non è mai stata, né nell’Unione Sovietica prima né nella Russia putiniana di oggi. L’esito è fortunatamente diverso: dopo due anni di arresti domiciliari a Mosca per le accuse di appropriazione indebita, in seguito cadute, Serebrennikov oggi vive a Berlino, da esule certo ma da uomo libero, che non risparmia feroci critiche al regime del suo Paese. Non fa eccezione questo nuovo Legende, lavoro concepito per il teatro ma con moltissima musica curata da Daniil Orlov, da anni stretto collaboratore di Serebrennikov (sono sue anche le musiche del recente film La moglie di Tchaikovsky). Orlov accompagna lo spettacolo seduto alla tastiera sul lato del palcoscenico (ma si concede anche qualche incursione a fianco degli attori), ma nello spettacolo non mancano anche inserti con melodie tradizionali caucasiche a base di panduri e duduk, come in tutti i film di Paradžanov, e la presenza del solido Coro georgiano da camera della Georgia, che amplifica i momenti emotivamente più intensi del lungo spettacolo.

Legende (foto Frol Podlesnyi)
Legende (foto Frol Podlesnyi)

Paradžanov non è che un pretesto per parlare al pubblico di arte e raccontare, citiamo ancora Serebrennikov, “le storie eterne sulla libertà e la lotta per essa, sulla bellezza, sulla vittoria della vita sulla morte.” E davvero in questo suo sontuoso omaggio a Paradžanov non c’è niente di funebre. Al contrario, Serebrennikov impiega registri molto diversi in questo ritratto di un artista non conforme fatto di dieci quadri definiti “Legende” (sonoramente annunciati dalla voce degli attori), in chiaro omaggio all’immaginario epico che costituisce la linfa cinema del cineasta georgiano. Si apre con la “Leggenda dei morti” per raccontare per schizzi dell’infanzia e dei genitori del piccolo Sergej (con una spassosa parentesi operistica ispirata a un Werther visto da piccolo con una fantasia di suicidi a catena scatenata dal sacrificio dell’eroe massenetiano sulla sua fragile psiche infantile). Seguono poi la “Leggenda dell’Infanta Margherita” per raccontare della formazione artistica e del suo fertile immaginario iconografico e così via fino alla “Leggenda di Re Lear”, che chiude la prima parte con un perturbante dialogo sulla violenza e sull’insensatezza del potere fra il dittatore Lear, dietro al quale non è difficile scorgere un ritratto spietato di Putin nonostante l’aria smarrita dell’attore Falk Rockstroh, e le sguaiate quanto brucianti verità del suo buffone che è uno strepitoso Nikita Kukushkin. Chiude lo spettacolo con una nota malinconica la “Leggenda del vecchio che spezza il ghiaccio” con il protagonista confinato in un gulag a spaccare ghiaccio con la sola consolazione dai fantasmi di una vita come in un girotondo felliniano (e proprio Federico Fellini fu uno dei grandi ammiratori della bellezza e della fantasia dell’immaginario di Paradžanov). Rende onore alla sua memoria l’apoteosi finale in forma di lamento del coro schierato al completo sul palcoscenico con tutti gli attori. 

Straordinari per impegno totale tutti gli interpreti – molti dall’ensemble del Thalia Theater di Amburgo che coproduce lo spettacolo – di questa autentica maratona diretta dall’impeccabile direzione attoriale di Serebrennikov con il concorso delle coreografie per corpi non (sempre) danzanti di Ivan Estegneev e Evgeny Kulagin, ma da citare sono almeno Karin Neuhäuser, irresistibile nella parodia della diva decaduta che vende tutto quello che le resta e anche altro sulle note della Traviata, oltre a Pascal Houdus, Odin Lund Biron e Campbell Caspary da elogiare in blocco per la versatilità anche nel canto e nella danza. Rievocano le fantasmagorie dell’universo di Sergej Paradžanov le incisive immagini che prendono forma sull’agile e mutevole dispositivo scenico concepito dallo stesso Serebrennikov come i variegati costumi e gli oggetti di scena, esaltati dalle cangevoli luci di Sergei Kuchar e i video Ilya Shagalov. Per chi l’ha perso, si può recuperare dal prossimo 30 novembre ad Amburgo.

  

Dalle distopie reali delle rivoluzioni finite male alle utopie delle rivoluzioni solo vagheggiate: The Faggots and Their Friends Between Revolutions, fantasia barocca (come da sottotitolo) con musiche di Philipp Venables e drammaturgia e regia di Ted Huffmann, approda alla Jahrhunderthalle dopo il debutto a Manchester e il passaggio al Festival di Aix-en-Provence nella scorsa estate. Torna a rivivere alla Jahrhunderthalle la curiosa sociogonia queer del volume molto underground di Larry Mitchell anno 1977 che presta al lavoro titolo e trama, con solo qualche modifica (anche nel cast) ma una maggiore fluidità nel racconto scenico. Nell’attesa della terza rivoluzione, quella che vedrà la totale liberazione dei “faggots” (tranquilli: il termine spregiativo è da leggere in senso storico, come rassicura un foglietto volante aggiunto al programma) dalla tirannia dei “men” si continua a ballare (anche con il vitaminico “hip hop” di Yandass) e si canta anche di più, con le voci di Mariamielle Lamagat, Collin Shay, Daniel Shelvey, Themba Mvula e Lauren Young, versatili anche come coristi e strumentisti quando serve. Ma anche gli strumentisti ufficiali, cioè Conor Gricmanis, Jacob Garside, Kerry Bursey, Eric Lamb, Meriel Price, Joy Smith, Sally Swanson, tutti impegnati nello strumentario per lo più barocco, partecipano anche danzando e recitando. Il bel gioco di squadra è coordinato da Yshani Perinpanayagam seduta alla tastiera che segue il vortice di movimenti, un po’ la cifra di questa produzione che ha la grazia e la freschezza del saggio finale di una scuola di arti sceniche. Immancabile anche questa volta la parentesi partecipativa, che scadrebbe nel didascalico se non fosse guidata dallo spirito molto British della performer non binaria Kit Green

Se bellezza è anche nell’eterodosso, nel radicale e nel fuori norma, questa prima Ruhrtriennale targata Ivo Van Hove ne è la celebrazione

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