La Carmen di Mehta
Successo al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino per il capolavoro di Bizet diretto dal direttore onorario
La prima opera a teatro commissariato, dopo l'insediamento di Onofrio Cutaia di cui abbiamo dato notizia, ha visto un teatro pienissimo e molti applausi finali, risoltisi addirittura in una standing ovation, evento assai raro a Firenze, quando alla ribalta finale è salito Zubin Mehta, che ancora una volta, come durante il commissariamento precedente di Salvo Nastasi, o in altri momenti critici legati alle sovrintendenze di Francesca Colombo e Francesco Bianchi, è evidentemente visto dal pubblico come un elemento di continuità e di condivisione di affetti. E proprio da lui cominciamo questa cronaca: non è certamente una Carmen agile, aggressiva, scattante, affilata quella di Zubin Mehta, ma proprio questa sua visione per così dire smussata, parnassiana, a tratti persino sognante (pensiamo a certi esiti ammalianti di questa recita, dall'orchestra sotto l'aria di Micaela all'ultimo entracte, davvero magico) ne costituisce oggi il fascino e il sigillo interpretativo, in un distillato di originalità direttoriale che ci è sembrato superiore ad altre sue Carmen fiorentine che nel ricordo, paragonate con questa, ci sono sembrate al confronto più chiassose e generiche. Sia come sia, il nostro quasi novantenne direttore onorario a vita ha saputo ottenere il meglio dal coro, valorosamente impegnato anche nella prestazione scenica, e da un'orchestra che, benché ringiovanita nelle file e in diverse eccellenti prime parti, continua a rispondergli e ad assecondarlo con calore e bellezza, come fa da più di mezzo secolo (ci viene in mente la fascinosa accelerazione progressiva della “canzone dei sistri" di Carmen all'inizio del secondo atto, Les tringles des sistres tintaient). Questo vale anche per il palcoscenico, se pensiamo a momenti ben riusciti per calibratura, spirito e tenuta dell'insieme, come il “quintetto del contrabbando" del secondo atto, e molti altri.
Il cast offriva un panorama più diseguale e non del tutto soddisfacente, con alcune seconde parti veramente eccellenti vocalmente e scenicamente, come Volodymyr Morozov, William Hernandez e Oronzo D'Urso, rispettivamente Zuniga, il Dancairo e il Remendado, e un Escamillo che ci è piaciuto per adesione al personaggio nonostante qualche sfocatura di note basse, Mattia Olivieri. Non per la prima volta abbiamo trovato graziosamente insipida, e in questo caso anche scarsa di suono, Valentina Nafornita, Micaela; un po' troppo fosca vocalmente come Carmen Clementine Margaine che pure è attualmente fra le interpreti più accreditate dell'eroina di Bizet; e, quanto al Don José di Francesco Meli, riflettiamo, come già altre volte, che si possono forzare con l'intelligenza e lo zelo i confini per dir così “naturali" della propria vocalità, ma fino a un certo punto. Del resto, mentre avanziamo queste riserve, è d'obbligo dire che sono stati tutti generosamente applauditi. Qualche fischio, non molti comunque, è toccato invece alla messinscena, con l'allestimento del teatro di Zurigo che peraltro a chi scrive è assai piaciuto: una scena (Volker Hintermeier) spoglia organizzata su una grande piattaforma, circolare come una plaza de toros, e pochissimi elementi in scena o sullo sfondo, un allaccio elettrico, una grande luna, un olivo, e delle belle luci per valorizzarlo (Valerio Tiberi). La regìa di Matthias Hartmann era molto abile a sfruttare e definire questo spazio nelle numerose scene corali e di gruppo (pensiamo al gioco di sagome evidenziato dalle luci nell'introduzione orchestrale del coro dei monelli), ma non altrettanto centrata nella definizione dei due personaggi principali, in particolare la gestualità procace e sfrontata di Carmen, che ci è sembrata del tutto disadatta all'interprete, e l'eccesso di ingenuità, innocenza e indifferenza di Don José nel primo atto; per non parlare di un gran numero di stranezze inspiegabili, di quelle che oggi il pubblico italiano denomina come cose da Regista Tedesco, la cui elencazione finirebbe per essere più lunga di questa cronaca. Questi pochi dissensi, anche troppo severi perché si trattava comunque di uno spettacolo ben funzionante e visualmente elegante, sono però stati sommersi dagli applausi, di cui, lo ripetiamo, i più festosi sono andati a Mehta. E questo è un segno in qualche modo confortante: un segno di fedeltà del pubblico in una fase difficile, in cui, per fortuna, gli stipendi dei dipendenti del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino sono sbloccati, ma la programmazione – a partire da quella del prossimo festival del Maggio che comincia fra meno di un mese - e i costi conseguenti sono ancora al vaglio del commissario Cutaia.
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