Kantorow e Gadjiev suonano a Roma a un giorno di distanza
Due giovani che non sono più delle promesse ma due tra le più belle realtà dell’affollato panorama pianistico attuale
A ventiquattro ore di distanza hanno suonato a Roma due giovani pianisti, lanciati pochi anni fa dai due più importanti concorsi pianistici del mondo - uno ha vinto il primo premio al Čajkovskij di Mosca, l’altro il secondo premio allo Chopin di Varsavia - e rapidamente affermatisi nelle sale da concerto di mezzo mondo.
Il ventiseienne Alexandre Kantorow – è francese, nonostante il suo nome possa ingannare – ha suonato per l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, presentando un programma composito, che sembrerebbe un’antologia di pezzi favoriti, come si faceva cent’anni fa, e che invece ha una sua coerenza. La prima parte iniziava con la Rapsodia op. 79 n. 1, scritta da Brahms nella sua piena maturità artistica, e si concludeva con la Rapsodia op. 1 di un Bartók appena ventitreenne. Entrambe rivelano sotto le dita di Kantorow un’insospettata vicinanza a Liszt, per la scrittura pianistica ma non solo. L’attacco del brano di Brahms è folgorante ma dopo poche battute si immerge nella parte sinistra della tastiera con risonanze cupe, quasi funeree, passando poi improvvisamente a sonorità dolcissime e luminose, quasi una visione eterea, paradisiaca. Sembrerebbe proprio Liszt, che Brahms non amava affatto, quindi i pianisti brahmsiani o non se ne accorgono o lo nascondono, mentre Kantorow lo vede e lo sottolinea. Chi ha ragione? L’interpretazione di Kantorow, personale ma ben meditata, può essere discussa ma è illuminante, perché rivela come all’epoca fosse difficile sottrarsi totalmente alla rivoluzione poetica e tecnica del pianismo di Liszt. A proposito di tecnica, quella di Kantorow è sbalorditiva e abbacinante ma non scade mai in una dimostrazione atletica di forza e di velocità e resta un mezzo, di cui egli si serve con intelligenza e sensibilità acutissime per scavare nella musica, mantenendo durante tutto il recital un controllo e una lucidità impressionanti anche nei momenti più parossistici e intricati.
Nella Rapsodia del giovane Bartók – un ulteriore merito di Kantorow è stato proporre questo pezzo di rarissimo ascolto - l’influsso della tecnica pianistica del suo connazionale Liszt è incontrovertibile mentre non c’è traccia della tecnica percussiva del Bartók maturo. Già si ascolta un grande compositore in erba e già si sente - soprattutto nella prima parte di questo ampio lavoro diviso in tre movimenti senza soluzione di continuità – il suo interesse per la musica popolare magiara, quella autentica, non quella ad uso turistico delle rapsodie lisztiane.
Tra questi due compositori, che con modi e motivi molto diversi si posero entrambi in antitesi a Liszt e che tuttavia, come Kantorow ha dimostrato, non poterono prescindere totalmente da Liszt, era in programma proprio lui, Liszt, con “Chasse-neige”, dodicesimo e ultimo degli Studi trascendentali, e “Vallée d’Obermann” dal secondo libro degli Anni di pellegrinaggio. Due pezzi splendidi, che alternano intensa e raccolta espressività e momenti sfolgoranti e febbrili, col pianoforte trasformato in una miniera di suoni e colori in grado di sfidare l’orchestra, senza esibizionismi ma al servizio dell’ineffabile sentimento romantico della natura come specchio dell’animo umano. Nell’interpretazione di Kantorow scompare ogni traccia di sentimentalismo e di retorica, sempre in agguato in Liszt, e tutto si trasforma in puro e abbagliante suono, potente o delicato ma sempre limpido e puro, grazie anche ad un uso accorto e centellinato del pedale di risonanza da parte del pianista francese.
La seconda parte si apriva con la Sonata n. 1 op. 28, composta nel 1907 da Rachmaninoff, che ricava dal pianoforte un mondo sonoro fatto di grandi contrasti dinamici ed espressivi e di sonorità che svariano dal grandioso e drammatico al semplice e sentimentale, in cui l’influsso del pianismo lisztiano è ben riconoscibile. Invece sono interamente di Rachmaninoff la prolissità e l’incapacità di dire basta e fermarsi.
Era difficilissimo e faticoso per il pianista anche l’ultimo brano, la Ciaccona per violino solo di Bach, trascritta per la sola mano sinistra da Brahms, qui effettivamente lontano da ogni possibile influsso lisztiano e vicinissimo al suo amato Bach, da lui rispettato fedelmente, pur con con gli inevitabili cambiamenti imposti dal passaggio dal violino al pianoforte, e allo stesso tempo trasformato profondamente, con alcuni piccoli ma geniali tocchi personali.
Dopo due ore e chissà quante migliaia di note, Kantorow aveva il viso stravolto ma le dita ancora piene di energia ed ha ceduto alle richieste del pubblico suonando “Mon coeur s’ouvre à ta voix” dal Samson et Dalila di Saint-Saëns nella trascrizione di Victor Young e Nina Simone e il Sonetto del Petrarca n. 104 di Liszt.
Il giorno dopo il trentenne Alexander Gadjiev – anche in questo caso il nome potrebbe ingannare: è italiano – ha suonato al Teatro Argentina per l’Accademia Filarmonica Romana.
Anche il suo era un programma antologico ma con un sotterraneo filo rosso, che in questo caso era l’influsso non di Liszt ma di Chopin sui compositori a lui posteriori. Il primo pezzo era il Prélude, fugue et variation op. 18 del trentenne César Franck - quindi an cora giovane ma non più un principiante - che Harold Bauer ha trascritto per pianoforte dall’originale organistico. Chiaramente Franck rende qui omaggio a Bach, eppure il Preludio non sfugge all’influsso di Chopin: giustamente Gadjiev lo suona con soffusa cantabilità ed intimo sentimento.
Non è certamente un caso che il concerto proseguisse con i primi due Notturni op. 15 di Chopin, suonati da Gadjiev con intensità non di suono ma di sentimento. Poi si passava ad uno Chopin totalmente diverso, quello dello Scherzo n. 3 op. 39, la cui arditissima ricerca timbrica e armonica era un ponte verso la Sonata n. 9 op. 68 di Skrjabin, nota col titolo apocrifo di “Messa nera”. L’influenza di Chopin sul musicista russo è palese nelle sue composizioni giovanili ma, anche se meno evidente, perdura in questa Sonata composta due anni prima della morte. Era la prima volta che Gadjev si accostava a Skrjabin ma è già apparso totalmente immerso nel complesso mondo del compositore russo.
In tutta questa prima parte del recital, Gadjev ha colpito con il suo approccio lontano dal fiammeggiante virtuosismo della quasi totalità dei pianisti suoi coetanei. La sua tecnica è altrettanto raffinata ma si ricollega ad un’altra scuola, più antica e forse in via di estinzione, che merita di essere protetta. Una scuola in cui le dita sono importanti ma sono messe al servizio del cuore, del sentimento, dell’ispirazione e dell’istinto, parole oggi diventate impronunciabili quando si parla di arte e in particolare di musica, ma che hanno guidato i grandi musicisti dell’Ottocento.
Appartengono all’Ottocento anche i Quadri di un’esposizione, ma Musorgskij era un outsider senza predecessori né successori. L’approccio di Gadjev è qui diverso e coglie gli aspetti pittoreschi, popolareschi e anche grotteschi di questa musica, ma senza lasciarsene sfuggire il significato profondamente umano, concreto e fisico e allo stesso tempo spirituale. Ma si avvertiva qualche sintomo di stanchezza, perché questo programma lungo e impegnativo è stato incomprensibilmente eseguito senza intervallo, non per scelta di Gadjiev. Alla fine ha comunque trovato le forze per tre bis, la Mazurka op. 6 n. 1 e il Notturno op. 48 n. 1 di Chopin e parte delle Variazioni op. 33 “Eroica” di Beethoven.
Un pianista come Gadjev dobbiamo tenercelo stretto, perché è fuori del mainstream e appartiene ad una specie in via d’estinzione. Col suo concerto ci ha regalato sensazioni ed emozioni non appariscenti ma rare e sottili, di cui tanti giovani leoni della tastiera ignorano perfino l’esistenza.
PS Sia Kantorow che Gadjiev sono incorsi in alcune poche note non perfette, ma questo ci ha confermato che a suonare era un umano e non un’intelligenza artificiale.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.