A Jesi l’opera noir di Bartók

Per la prima volta sul palcoscenico del teatro “G.B. Pergolesi”, Il castello del principe Barbablù

Il castello del principe Barbablù
Il castello del principe Barbablù
Recensione
classica
Teatro “G.B. Pergolesi” di Jesi
Il castello del principe Barbablù
30 Ottobre 2021

Per la prima volta sul palcoscenico del teatro “G.B. Pergolesi” di Jesi, Il castello del principe Barbablù di Béla Bartók in un nuovo allestimento in coproduzione con Teatro Coccia di Novara, ha catturato e affascinato il pubblico in cinquanta minuti intensi e coinvolgenti.  Atto unico su libretto di Béla Balàzs, unica opera di Bartók, fu composta nel 1911 per un concorso di composizione da cui uscì  rigettata; fu presentata al pubblico nel 1918 accanto al balletto Il principe di legno ma l’anno seguente subì ancora una volta il diniego attraverso la censura.

 

Il massiccio organico orchestrale pensato dall’autore e che prevede oltre 90 musicisti è stato ridotto per questa nuova produzione ad un’orchestra da camera di  23 elementi, con orchestrazione a cura di Paola Magnanini e Salvatore Passantino,  allievi dell’ Accademia AMO (Accademia dei Mestieri dell’Opera), realizzata sotto la supervisione di Marco Taralli. Sfida impegnativa, che ha mirato  sia a conservare i colori timbrici originari, cosa più semplice da realizzare  nei passaggi solistici ma ottenuta in maniera fedele in tutta la partitura, sia a mantenere i “gesti” originari, quei passaggi musicali legati a precisi eventi, o simboli, con funzione anche descrittiva. Lo strettissimo rapporto tra musica e testo (Kodály ne parlò come della prima opera in cui gli accenti della lingua magiara non fossero deformati nel declamato musicale  e dove “il canto si esprime dall’inizio alla fine in un ungherese omogeneo e puro”) non ha potuto non far optare per una produzione in lingua originale, cosa che, immaginiamo, ha reso ancora più arduo il lavoro dei due interpreti, Andrea Mastroni, bellissima e possente voce di basso profondo in Barbablù, e Mary Elizabeth Williams, soprano americano dalla voce di analogo  spessore sonoro e di grande espressività nella recitazione nella parte di Judith.

 

Opera intessuta di simbolismi e di significati ambigui e anche contraddittori, Il castello del principe Barbablù  si presta ad interpretazioni differenti e tutte ugualmente plausibili. Quella offerta dalla regista Deda Cristina Colonna non propende per il tradizionale stereotipo di spietata crudeltà omicida ma presenta il protagonista in tutta la complessità della sua natura umana, simboleggiata dal castello che Judith vìola in maniera continua e insistente chiedendo l’apertura delle sette porte, entrando progressivamente in esso e intessendo all’interno  una sorta di ragnatela, che riduce lo spazio emotivo di entrambi e che li va sempre più separando

nella loro incapacità di ascoltarsi reciprocamente.

E’ quindi un dramma dell’incomprensione, della impossibilità di un rapporto tra uomo e donna, di cui il fallimento con le tre mogli precedenti sono la prova e che viene sperimentato di nuovo con Judith. Incomunicabilità  tra i due che è simboleggiata da due note  lontane  armonicamente, fa diesis per Barbablù e fa per Judith, intorno a cui cantano nella prima parte dell’opera, salvo poi invertirle a specchio nella seconda parte, secondo una struttura a palindromo cara all’autore. Il fa diesis è poi simbolo del buio, con cui l’opera inizia e con cui poi termina ma che contrasta con un luminosissimo do maggiore, che la regista sottolinea con l’accensione delle luci in sala, nel momento in cui il principe apre la quinta porta e mostra alla moglie il suo vasto regno alla luce del sole.

 

L’orchestra del Teatro Coccia di Novara diretta da Marco Alibrando ha interpretato molto bene le figurazioni musicali intessute di simbologie  che Bartók ha voluto  esprimessero in modo realistico le pieghe più recondite dell’animo del principe: i lamenti, i sospiri, gli accenti di dolore, realizzati con aspre dissonanze e soprattutto con il ricorrente intervallo armonico di seconda minore, che strideva con la dichiarazione d’amore di Judith;  i soffi che increspano il lago di lacrime realizzati con sinistri glissando dell’arpa; e il pungente suono degli archi ad esprimere le lame acuminate della camera della tortura e la onnipresenza del sangue.

 

La regia e al contempo la scenografia, a cura di Matteo Capobianco,  elegante e ispirata all’art nouveau, tutta bianca  e macchiata  solo dal rosso del costume di Barbablù e dal sangue hanno creato uno spettacolo dove gli aspetti visivi e sonori si compenetravano vicendevolmente e in maniera imprescindibile l’uno dall’altro.

Calorosi gli applausi, anche per il brano di Claudio Scannavini che ha fatto da preludio all’opera.

 

 

 

 

 

 

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