Incontri madrileni
Il Festival Jazz di Madrid fra Africa e Europa
Recensione
jazz
Qualche riflessione a margine di alcuni appuntamenti del Festival Jazz di Madrid di quest'anno; tre concerti il cui comune denominatore era quell'incontro di linguaggi che, con una brutta parola, fino a poco tempo fa veniva chiamata "contaminazione" – insomma, quella sintesi che si attua da incontri di modi musicali spesso lontani. Quindi il blues american/africano del duo formato da Eric Bibb e Habib Koité, il jazz "europeo" della nostra Rita Marcotulli, e il jazz arabo del trio del liutista libanese Rabih Abdou Khalil. Il tutto esaurito di molti appuntamenti del festival (nonostante la crisi a Madrid la gente accorre massiccia ai concerti: pagando...) mi ha portato a fare questa scelta, e pur non trattandosi dei concerti di maggior richiamo, si può dire che si è trattato di piacevoli sorprese, in alcuni casi vere e proprie chicche, il segno di una ricca vitalità frutto vuoi di incontri spontanei, vuoi di una intensa e articolata ricerca linguistica.
E nel ritorno all'Africa del bluesman newyorkese Eric Bibb, che si incontra con il musicista maliano Habib Koité (presentano gran parte dell'album Brothers in Bamako), c'è tutto il sapore di una simbiosi spontanea di codici idiomatici, che pian piano si vengono confrontando, prima avvicendandosi, poi filtrando, finanche sovrapponendosi. Si avverte, da parte dei due, una reciproca ricerca di appropriazione di elementi fortemente identitari: da un lato gli eterni classici schemi del blues, con le sue armonie e le sue scale, dall'altro il diatonismo di un melodizzare africano. È un gioco evocativo di rimandi, affinità e contrasti, come a assistere a un processo di permutazione graduale; così in un brano come “We Don't Care”, che si presenta come una placida ballata, dai contenuti di critica sociale in stile "vecchia America", si innestano senza sbalzi e scarti traumatici le improvvisazioni di Koité, di una chitarra che sembra avere gli intervalli di una kora, e quindi la vocalità tutta africana che si sovrappone perfettamente sul tappeto armonico disegnato da Bibb. E tale procedimento in forma inversa si attua in un brano come “Timbuctù” dove è la voce e l'inflessione blues ad innestarsi su una base afro. Perfetto amalgama dei due anche con le percussioni di Mama Cissoko: concerto godibilissimo, dal clima disteso e con una comunicazione molto aperta con il pubblico.
Con la serata di Rita Marcotulli i suoi “European leaders”, c'è un meltin' pot europeo ad incontrarsi: l'italiana Marcotulli al piano, il chitarrista franco-vietnamita Nguyen Le, il sassofonista britannico Andy Sheppard, il contrabbassista tedesco Klaus Hovman e la pirotecnica batterista statunitense, di origini polacche e africane (che già suonò con Miles Davis) Marilyn Mazur. È un progetto che sembra muoversi sul piano di una particolare ricerca linguistica, che partendo da una base comune jazzistica, fa filtrare le diverse esperienze personali con i rispettivi retroterra culturali e musicali dei diversi componenti dell'ensemble.
Il clima è di un jazz urbano, un po' anni settanta: temi serrati, tappeti di elettronica, atmosfere psichedeliche: una chitarra elettrica, quella di Nguyen Le, ricca di inventiva, che delinea disegni stranianti, atmosfere sia concitate che dilatate, in alcuni momenti con sonorità metheniane o alla Frisell; il pianismo un po' cerebrale della Marcotulli, a tratti impressionistico a tratti meditativo e con digressioni fortemente atonali. Bella, dal colore garbarekiano, la voce di sax di Sheppard, il tutto con il collante di una ritmica fantasiosa e serrata: grande protagonista della serata la Mazur, applauditissima.
Il programma presentato dal trio del liutista libanese Rabih Abou Khalil, con il fisarmonicista italiano Luciano Biondini e il percussionista statunitense Jarrod Cagwin si sviluppa all'insegna di un deciso virtuosismo, con arrangiamenti serrati e ben confezionati. Khalil, libanese da tempo emigrato in Germania, ha voluto piegare il liuto verso altre soluzioni espressive rispetto a quelle che abitualmente gli appartengono – meditativo e dalle sonorità delicate - come per attribuirgli un ethos diverso: qui lo sentiamo, quasi in una espressività rock, molto percussiva. E i temi evocano più un clima di questo tipo, blues rock, su cui si innestano altri colori orientali, o di tango... Un gioco di accostamenti ben assemblato ma che non scava in profondità, che alla fine non ci convince del tutto. La serata è vivace e frizzante, il protagonista, Khalil, è un gran istrione e comunicatore e con il suo virtuosismo riesce a catalizzare la simpatia e il consenso entusiasta del pubblico.
E nel ritorno all'Africa del bluesman newyorkese Eric Bibb, che si incontra con il musicista maliano Habib Koité (presentano gran parte dell'album Brothers in Bamako), c'è tutto il sapore di una simbiosi spontanea di codici idiomatici, che pian piano si vengono confrontando, prima avvicendandosi, poi filtrando, finanche sovrapponendosi. Si avverte, da parte dei due, una reciproca ricerca di appropriazione di elementi fortemente identitari: da un lato gli eterni classici schemi del blues, con le sue armonie e le sue scale, dall'altro il diatonismo di un melodizzare africano. È un gioco evocativo di rimandi, affinità e contrasti, come a assistere a un processo di permutazione graduale; così in un brano come “We Don't Care”, che si presenta come una placida ballata, dai contenuti di critica sociale in stile "vecchia America", si innestano senza sbalzi e scarti traumatici le improvvisazioni di Koité, di una chitarra che sembra avere gli intervalli di una kora, e quindi la vocalità tutta africana che si sovrappone perfettamente sul tappeto armonico disegnato da Bibb. E tale procedimento in forma inversa si attua in un brano come “Timbuctù” dove è la voce e l'inflessione blues ad innestarsi su una base afro. Perfetto amalgama dei due anche con le percussioni di Mama Cissoko: concerto godibilissimo, dal clima disteso e con una comunicazione molto aperta con il pubblico.
Con la serata di Rita Marcotulli i suoi “European leaders”, c'è un meltin' pot europeo ad incontrarsi: l'italiana Marcotulli al piano, il chitarrista franco-vietnamita Nguyen Le, il sassofonista britannico Andy Sheppard, il contrabbassista tedesco Klaus Hovman e la pirotecnica batterista statunitense, di origini polacche e africane (che già suonò con Miles Davis) Marilyn Mazur. È un progetto che sembra muoversi sul piano di una particolare ricerca linguistica, che partendo da una base comune jazzistica, fa filtrare le diverse esperienze personali con i rispettivi retroterra culturali e musicali dei diversi componenti dell'ensemble.
Il clima è di un jazz urbano, un po' anni settanta: temi serrati, tappeti di elettronica, atmosfere psichedeliche: una chitarra elettrica, quella di Nguyen Le, ricca di inventiva, che delinea disegni stranianti, atmosfere sia concitate che dilatate, in alcuni momenti con sonorità metheniane o alla Frisell; il pianismo un po' cerebrale della Marcotulli, a tratti impressionistico a tratti meditativo e con digressioni fortemente atonali. Bella, dal colore garbarekiano, la voce di sax di Sheppard, il tutto con il collante di una ritmica fantasiosa e serrata: grande protagonista della serata la Mazur, applauditissima.
Il programma presentato dal trio del liutista libanese Rabih Abou Khalil, con il fisarmonicista italiano Luciano Biondini e il percussionista statunitense Jarrod Cagwin si sviluppa all'insegna di un deciso virtuosismo, con arrangiamenti serrati e ben confezionati. Khalil, libanese da tempo emigrato in Germania, ha voluto piegare il liuto verso altre soluzioni espressive rispetto a quelle che abitualmente gli appartengono – meditativo e dalle sonorità delicate - come per attribuirgli un ethos diverso: qui lo sentiamo, quasi in una espressività rock, molto percussiva. E i temi evocano più un clima di questo tipo, blues rock, su cui si innestano altri colori orientali, o di tango... Un gioco di accostamenti ben assemblato ma che non scava in profondità, che alla fine non ci convince del tutto. La serata è vivace e frizzante, il protagonista, Khalil, è un gran istrione e comunicatore e con il suo virtuosismo riesce a catalizzare la simpatia e il consenso entusiasta del pubblico.
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