“Il trovatore” a Parma, un’occasione mancata
Al Festival Verdi applausi tiepidi e qualche dissenso per il nuovo allestimento firmato da Livermore e Ciampa
Il nuovo allestimento de Il trovatore, terzo titolo d’opera in cartellone al XXIII Festival Verdi il cui debutto abbiamo seguito domenica sera al Teatro Regio di Parma, ha rappresentato per più di un motivo un’occasione mancata, che ha lasciato deluso sia chi riponeva particolari aspettative nel debutto parmigiano della visione registica di Davide Livermore (qui coadiuvato dal regista collaboratore Carlo Sciaccaluga, con le scene di Giò Forma, i costumi di Anna Verde, i video D-Wok e le luci di Antonio Castro), sia chi puntava più sul versante musicale, al di là delle presunte provocazioni del cosiddetto teatro “di regia” messo a confronto con un pubblico tradizionalmente conservatore come quello della città emiliana.
A questo proposito, riportiamo le dichiarazioni dello stesso Livermore raccolte in merito la suo lavoro per questo Trovatore: «Il teatro di regia deve dare vita contemporanea alle opere del passato. Non inseguire la provocazione di per sé. Se l’altrove dell’Ottocento era, anche letterariamente, facile da vedere nella ‘lontana’ Spagna medievale, il nostro è anonimo: riconoscibile dalla polvere che lo ingrigisce e cifra il senso di abbandono tipico delle periferie: uno spazio suburbano – ce ne sono tanti nel mondo, anche in Italia – dove si pratica la forza non l’accoglienza. Il racconto comincia sotto un cavalcavia: sullo sfondo palazzi lucidi di acciaio e cristallo dove vive l’altro mondo. Sotto, scarti di umanità e civiltà. […] Anche se domina un magnifico led wall, al quale è affidata una straordinaria realtà fatta di profondità e di sensazioni visive non altrimenti realizzabili, le due dimensioni espressive e teatrale sono in continuo dialogo».
Un dialogo che, alla prova dei fatti, non pare però aver condotto a una lettura particolarmente originale o pregnante dell’opera verdiana, assecondando invece una restituzione alquanto didascalica e – pensando alla cifra distintiva del lavoro di Livermore – abbastanza prevedibile. Naturalmente non è in questione la legittimità di una ipotetica attualizzazione dell’ambientazione dell’opera: il contesto – come, del resto, tutto ciò che è teatro – è pretesto per raccontare (e per analizzare) l’oggi, quindi, come sostiene giustamente lo stesso Livermore, che si tratti di Ottocento, del Medioevo spagnolo o di un altrove presente o “post-qualcosa”, si tratta di un tramite – di un “medium” – per parlare della (e alla) nostra società.
Detto questo, ciò che abbiamo visto sul palcoscenico del Regio parmigiano è parso riconducibile ad una sequenza di quadri – composti sia dagli elementi in scena sia dai cangianti pixel del led wall – esteticamente curati ma spesso drammaturgicamente pleonastici. La distinzione tra l’"alto" della classe sociale potente e prepotente rinchiusa nei lucidi palazzi di cristallo e il "basso" dei poveri disperati e sbandati sparpagliati nelle decadenti periferie – oltre a rappresentare un cliché a prescindere – è naturalmente presente nella quasi secolare tradizione cinematografica sci-fi (science fiction) – a quanto pare, una delle fonti di ispirazione dello stesso Livermore – che va grosso modo dalla Metropolis di Fritz Lang alle Gotham City dei vari Batman che abitano ormai da decenni i piccoli e grandi schermi. E anche il circo, quale ricettacolo di decadenza e covo per quella sorta di sgangherata corte dei miracoli che qui circonda Manrico e la madre, appare modello ampiamente conosciuto e riconosciuto. In questo quadro non bastano alcune intuizioni efficaci – come l’accostamento di un decadente ospedale abitato da suore-infermiere al convento dove vuole rinchiudersi Leonora – a ravvivare una narrazione scenica sovente oltremodo esplicativa, dove quando si pronuncia “fuoco” tra clown e giocolieri appare il mangiafuoco, quando si canta “sangue” diviene tutto rosso sangue, quando si evoca il veleno vediamo scendere e diffondersi il fatale fluido.
Anche sul versante musicale il risultato non è apparso in generale particolarmente efficace. Se nelle intenzioni di Francesco Ivan Ciampa «il primo obiettivo di un’interpretazione fresca su un testo molto frequentato [deve essere], per il direttore d’orchestra, quello di costruire “scenografie musicali” per ogni personaggio, attraverso la cura di articolazioni e dinamiche», questo obiettivo l’altra sera non è parso sempre centrato. Un esempio, in questo senso, lo possiamo trarre dalla scelta di offrire una lettura significativamente dilatata di due momenti emblematici e in qualche modo speculari dell’opera: da un lato il Conte di Luna impegnato in una restituzione non proprio efficace de “Il balen del suo sorriso”, dall’altro la Leonora di “D’amor sull’ali rosee” immersa in una lettura più pregnante. Una dicotomia che è affiorata nel corso di tutti e quattro gli atti dell’opera, nei quali la direzione di Ciampa da un lato ha serrato le fila di un’Orchestra e di un Coro del Teatro Comunale di Bologna (quest’ultimo preparato da Gea Garatti Ansini) abbastanza disomogenei, e dall’altro lato ha gestito una compagine vocale dalla resa nel complesso discontinua.
Su questo fronte erano impegnati Franco Vassallo (protagonista in questi giorni anche a Busseto nel Falstaff “da camera”) nei panni di un Conte di Luna dal segno vocale non sempre efficace, Francesca Dotto in quelli di una Leonora tratteggiata con buon impegno ma dall’intensità un poco acerba, Riccardo Massi in quelli di un Manrico dal carattere non più che discreto, mentre Clementine Margaine ha dato corpo a un’Azucena di robusta presenza scenica e vocale, spinta però verso un’espressività eccessivamente drammatizzante. Completavano il cast Roberto Tagliavini, protagonista di una buona prova nei panni di Ferrando, l’allieva dell’Accademia Verdiana Carmen Lopez (Ines), Didier Pieri (Ruiz), Enrico Picinni Leopardi (Un messo) e Sandro Pucci (Un vecchio zingaro).
Il pubblico presente alla “prima” – sempre più affetto da quella sorta di incontinenza da smartphone ormai dilagante – ha comunque applaudito gli artisti impegnati, con diversi dissensi e “buu” rivolti principalmente alla regia da parte di un loggione che qui a Parma pare non essere più quello sanguigno e intransigente (soprattutto nei confronti delle voci) di una volta.
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