Il Torino Jazz Festival fra avanguardia e vecchia guardia
Si chiude l'ottima edizione 2024 del Torino Jazz Festival
Dovendo scegliere una sola istantanea del Torino Jazz Festival 2024, il direttore artistico Stefano Zenni – alla seconda edizione del suo secondo mandato – sceglie senza dubbio quella (scattata con prontezza da Claudio Merlo) che ritrae l’abbraccio tra John Zorn e Roscoe Mitchell, prima dei rispettivi concerti.
«L’avanguardia si incontra a Torino», recita il post su Facebook con comprensibile orgoglio. I due non si erano incredibilmente mai incontrati, ed è dunque senza dubbio una foto storica.
Come tutti gli scatti di questo tipo, il suo valore iconico rimarrà negli anni anche per la capacità di fissare un istante denso di significati, ma privo di contesto: che cosa è successo immediatamente prima e immediatamente dopo? Che cosa avranno pensato i due? Che opinione avevano l’uno dell’altro, al netto della ovvia cordialità?
La qualità dei nomi e l’eccezionalità di averli nella stessa giornata di Festival (domenica 28 nelle due sale dell’Auditorium del Lingotto, sold out come molti altri appuntamenti) certifica la dimensione raggiunta dal Torino Jazz Festival di quest’anno, supportata anche da numeri in crescita.
– Leggi anche: Torino Jazz Festival 2023, segue il dibattito
È stata in effetti una buona edizione, che conferma – mi pare – la direzione presa l’anno scorso: ovvero la capacità di tenere insieme molte declinazioni del jazz e molti gusti, accontentando tanto i fan delle sue forme più canoniche e muscolari quanto quelli più radical chic, senza dimenticarsi di buttare in mezzo qualche nome di quel “jazz da assessori” che costituisce il capitale di risparmio di molti festival italiani (ma usandoli sempre con attenzione e sempre ben contestualizzati).
Il programma “off” Jazz Cl(h)ub, ovvero la collaborazione con il circuito dei locali cittadini, libero dalla necessità di fare grandi numeri, può così presentare progetti interessanti e eccentrici: Mizookstra, Daykoda, Satoyama, LNDFK fra quelli più intriganti. Personalmente, sono riuscito a seguire il concerto dei Ghost Horse – inclusi nel programma main, ma sul palco del Bunker – che si confermano fra le formazioni italiane (almeno d’adozione, visto che il leader Dan Kinzelman è ormai da tempo nel nostro Paese) più interessanti e fresche.
Sul fronte organizzativo, è anche corretto segnalare il miglioramento di “incastri” rispetto all’anno scorso. Nel 2023 il Comune aveva controprogrammato negli stessi giorni il concerto gratuito del 25 aprile (Vinicio Capossela); quest’anno l’evento per la Festa della Liberazione (Fatoumata Diawara, in un Teatro Regio gremito e danzante) è stato incluso nel programma del Festival, così come un evento di richiamo ma alieno rispetto al jazz come il Premio Carlo U. Rossi. Nel 2023 contingenze organizzative avevano fatto sì che Jazz Is Dead – l’altro festival cittadino a tema – tenesse la sua anteprima il giorno prima dell’inizio del TJF; quest’anno le due rassegne hanno co-prodotto il live di John Zorn. Ho spesso criticato queste logiche poco attente all’ecosistema musicale cittadino, giusto rilevare quando invece le cose funzionano.
Nell’ingegneristico lavoro di equilibrio dei diversi stili e gusti che impegna la direzione artistica ci sono pochi dubbi che proprio personaggi come Zorn e Mitchell costituiscano la chiave di volta. Impossibile discuterli per la loro storia artistica, nomi del genere sono in grado di attrarre pubblico indipendentemente dagli esiti della loro performance. Ma, in fondo, più che «avanguardia» oggi sono vecchia guardia, classici riconosciuti la cui musica tende a celebrare se stessa più che proporre qualcosa di nuovo.
Mitchell e Zorn più che «avanguardia» oggi sono vecchia guardia, classici riconosciuti la cui musica tende a celebrare se stessa più che proporre qualcosa di nuovo. E va benissimo così, naturalmente.
E va benissimo così, naturalmente. Si va a vedere Roscoe Mitchell – sold out nella Sala dei Cinquecento del Lingotto – come si andrebbe a vedere una mostra di Mark Rothko, pronti ad annoiarsi come a emozionarsi, fieri di fare una esperienza inequivocabilmente “culturale” ma senza la pretesa di comprendere esattamente quello che sta succedendo (ammesso che ci sia qualcosa da comprendere).
Mitchell, nello specifico della performance torinese, ha più annoiato che emozionato. La collaborazione con Michele Rabbia è decollata solo a momenti – ed è una critica che nulla toglie al valore dei musicisti in campo: questo genere di collaborazioni free, semplicemente, a volte funziona, a volte no. È parte del gioco, prendere o lasciare.
Nella prima parte Mitchell – 83 anni compiuti – appare incredibilmente minuscolo vicino al suo gigantesco sax basso, in cui soffia a tratti con fatica – eppure è proprio in questa prima fase che si registrano i momenti migliori: una lunga sequenza in respirazione circolare su cui Rabbia somma armoniche generate sfregando dei piatti sulla pelle del timpano, come in una sintesi additiva analogica; o un passaggio in cui Mitchell insiste su un riff rallentato, trovando un dialogo fecondo. Altri passaggi – con il sassofonista che passa al soprano – ricadono invece troppo in quel contrappunto free che suona oggi più maniera che ispirazione. Poco utili e a tratti banali gli inserti elettronici.
John Zorn al contrario ha offerto un concerto memorabile, coronato da una standing ovation e impreziosito dalla presenza del regista Mathieu Amalric (che in giornata aveva presentato al Festival i suoi tre documentari dedicati al sassofonista), che si aggirava in sala riprendendo (un quarto documentario è in arrivo?).
Il New Masada Quartet – in uno dei suoi rari avvistamenti dal vivo – porta avanti il retaggio ormai trentennale del progetto Masada con una vivacità in parte inattesa, dovuta soprattutto alla presenza di Julian Lage, la chitarra del quale riesce ad aprire armonicamente in nuove direzioni, mai banali e spesso inaspettatamente blues, la musica di Zorn.
Con una ritmica ipercinetica (Jorge Roeder al contrabbasso, Kenny Wollesen alla batteria) e Zorn impegnato nel suo ruolo di conductor e solista in costante dialogo con Lage, la serata decolla nel giro di trenta secondi (in cui, sia detto a mo’ di battuta, i quattro suonano più note di tutte quelle accumulate da Michell nei suoi 60 minuti di set). Temperatura sempre altissima, ottima sintesi fra muscolarità e originalità, virtuosismo e idee compositive. Certo, nulla si aggiunge alla storia di Zorn – ma, ancora, va benissimo così.
Alla fine il commento migliore al senso del Torino Jazz Festival 2024 – o, più in generale, al senso di un festival jazz oggi – ce la dà la sera successiva Mats Gustafsson alla guida del suo progetto The End (nome ugualmente conclusivo).
Siamo al culmine di un concerto esaltante, diviso fra morbide canzoni quasi-folk e sessioni urlate fra il sax baritono del leader e la voce della fantastica Sofia Jernberg. Gustafsson si asciuga il sudore, si mette gli occhiali e spiega: « Jazz is dead. Or maybe there is some shit left to do». È in questo maybe sta il senso di tutto: continuiamo a cercare.
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