Il senso profondo del Flauto magico
Una piccola e giovane produzione alla Staatsoper di Amburgo rilegge Mozart
Recensione
classica
La Staatsoper di Amburgo è stata ricostruita dopo la seconda guerra mondiale ma sorge ancora vicino al Gänsemarkt, dove nel 1678 fu aperto il primo teatro d'opera pubblico al di là delle Alpi, in cui venivano rappresentate opere di autori tedeschi e in lingua tedesca, mentre nelle altre città della Germania imperavano l'opera italiana e i divi italiani.
Si direbbe che dopo trecentocinquanta anni questa sia ancora una peculiarità che distingue questo importante teatro tedesco da tutti gli altri grandi teatri della Germania e del mondo, perché nei suoi programmi non compaiono praticamente mai le star del momento: ma questo è un punto di forza e non un limite, poiché garantisce una qualità basata su basi più solide che non la prestazione dei singoli protagonisti.
In questi giorni è in scena una nuova produzione della Zauberflöte, che, leggendo il cartellone, potrebbe sembrare di scarso interesse, poiché non vi figura quasi nessun nome del grande giro internazionale. Solo Jean-Christophe Spinosi è noto anche in Italia, ma alla prova dei fatti la sua direzione è stata piuttosto scialba: si potrebbe quasi pensare che la sua sia stata una scelta "filologica", per così dire, poiché sicuramente al tempo di Mozart l'orchestra non aveva il ruolo protagonistico che gli si dà generalmente oggi. Invece non è venuto meno l'altra abituale protagonista di una produzione operistica moderna, ovvero la regia, che è stata firmata da Jette Steckel, una giovane con un curriculum non particolarmente eccitante. È probabile che il suo ruolo sia stato quello di realizzare le indicazioni date dai due "drammaturghi" Johannes Blum e Carl Hegemann, la cui funzione noi italiani fatichiamo a capire, poiché da noi tale figura non esiste. Ma in questo caso è piuttosto agevole riconoscere il loro intervento in una riscrittura radicale del libretto di Schikaneder, che ha portato all'eliminazione dei testi originali destinati alla recitazione, sostituiti in piccola parte con testi scritti ex novo e in parte da scene mimate, oppure unendo direttamente i vari numeri musicali. Ma questo non era imposto dal famigerato "Konzept" intellettualistico inserito a forza nell'opera, ma era ispirato dalla musica stessa di Mozart, che veniva liberata sia dalle sovrastrutture massoniche sia dagli aspetti più infantilistici della favola, portando invece in primo piano la vera storia di Tamino e Papageno, che compiono entrambi – sebbene in modi diversi, conformemente alle loro diverse personalità – uno stesso percorso, che non è quello dell'ingresso nella massoneria attraverso alcune prove rituali ma quello ben più difficile, misterioso, vitale dell'esistenza stessa, un percorso verso la comprensione di se stessi, verso l'amore per gli altri, verso la morte che è il punto d'arrivo di tutto. È molto coinvolgente ed emozionante a livello emotivo e allo stesso tempo induce a riflettere.
All'inizio dell'opera, sparito il terribile serpente, vediamo Tamino solo, vecchissimo e moribondo gridare terrorizzato "Zu Hilfe", in una scena che è un lungo tubo nero con una luce abbagliante in fondo, come nell'Ascesa all'Empireo di Hieronymus Bosch, un quadro piccolo ma grandissimo, che rappresenta il passaggio dalla vita all'aldilà. La scena cambia repentinamente e le tre Dame rivolgono le loro parole d'ammirazione per la bellezza di Tamino non ad un appetibile giovane ma ad un neonato in fasce, che rapidamente diventa un bambino, poi un adolescente. Da qui parte il suo viaggio esistenziale, che inizia con la scoperta dell'amore, che è poi la scoperta dell'altro e avviene non per il tramite di un ritratto inanimato, ma vedendo Pamina in carne e ossa passare in scena come un miraggio e scomparire subito dietro una cortina di fili luminosi, che rappresenta il sottile confine tra mondo reale e mondo interiore. È dietro quella cortina luminosa che appariranno poi le immagini proiettate dei volti della Regina della Notte e Sarastro (in realtà cantano stando nella buca dell'orchestra), perché i due princìpi diversi del bene e del male non sono esterni a noi ma combattono nel nostro interno. Per capire se stesso e il mondo, liberarsi delle paure e pulsioni negative, raggiungere il vero amore, Tamino non deve passare attraverso prove rituali che durano pochi minuti, ma impiega tutta la vita e invecchia e ingrigisce davanti ai nostri occhi di scena in scena. Infine si torna alla scena iniziale: Tamino è di nuovo vecchissimo nel tubo che sta per inghiottirlo nell'aldilà, ma ora può affrontare serenamente questo passaggio.
Certamente può essere uno shock, per chi sia affezionato alla favoletta con serpenti, fate cattive, genietti volanti e animali alla Walt Disney che danzano al suono del flauto, infatti qualcuno ha fischiato e buato, evidentemente non comprendendo che il senso profondo della favola del flauto magico c'era tutto, anzi veniva portato alla luce ed esaltato come non mai. Personalmente ritengo questa della giovane e semisconosciuta Jette la più bella della decina di Zauberflöte – tutte firmate da registi illustri – che ho visto in vita mia.
L'ottima compagnia di canto era formata interamente da giovani, molti dei quali debuttavano alla Staatsoper o debuttavano nel ruolo. Il turcmeno Dovlet Nurgeldiyev si è imposto come un Tamino di alto livello fin dalla prima aria, sia per le doti vocali (bellezza del timbro, controllo dei fiati, perfezione delle mezze voci, delicatezza delle sfumature dinamiche) che per l'intensa e sottile emozione dell'interpretazione. L'altra trionfatrice della serata era la greca Christina Poulitsi, che ha impressionato non tanto e non solo per la facilità, la precisione e la pienezza di suono nei sovracuti e nelle agilità, ma anche e soprattutto per la drammaticità e la forza nel registro medio-grave: sono rare le cantanti che possiedono entrambi questi aspetti della Regina della Notte. Molto bene anche la tedesca Christina Gansch, specialmente nei momenti più malinconici della parte di Pamina. L'inglese Jonathan McGovern è stato un Papageno profondamente umano, giocando sul sottile bilanciamento tra i lati buffi e patetici, con una comunicativa immediata che gli ha procurato la simpatia e gli applausi del pubblico. C'era anche un italiano, Andrea Mastroni, che è stato un impeccabile Sarastro.
Si direbbe che dopo trecentocinquanta anni questa sia ancora una peculiarità che distingue questo importante teatro tedesco da tutti gli altri grandi teatri della Germania e del mondo, perché nei suoi programmi non compaiono praticamente mai le star del momento: ma questo è un punto di forza e non un limite, poiché garantisce una qualità basata su basi più solide che non la prestazione dei singoli protagonisti.
In questi giorni è in scena una nuova produzione della Zauberflöte, che, leggendo il cartellone, potrebbe sembrare di scarso interesse, poiché non vi figura quasi nessun nome del grande giro internazionale. Solo Jean-Christophe Spinosi è noto anche in Italia, ma alla prova dei fatti la sua direzione è stata piuttosto scialba: si potrebbe quasi pensare che la sua sia stata una scelta "filologica", per così dire, poiché sicuramente al tempo di Mozart l'orchestra non aveva il ruolo protagonistico che gli si dà generalmente oggi. Invece non è venuto meno l'altra abituale protagonista di una produzione operistica moderna, ovvero la regia, che è stata firmata da Jette Steckel, una giovane con un curriculum non particolarmente eccitante. È probabile che il suo ruolo sia stato quello di realizzare le indicazioni date dai due "drammaturghi" Johannes Blum e Carl Hegemann, la cui funzione noi italiani fatichiamo a capire, poiché da noi tale figura non esiste. Ma in questo caso è piuttosto agevole riconoscere il loro intervento in una riscrittura radicale del libretto di Schikaneder, che ha portato all'eliminazione dei testi originali destinati alla recitazione, sostituiti in piccola parte con testi scritti ex novo e in parte da scene mimate, oppure unendo direttamente i vari numeri musicali. Ma questo non era imposto dal famigerato "Konzept" intellettualistico inserito a forza nell'opera, ma era ispirato dalla musica stessa di Mozart, che veniva liberata sia dalle sovrastrutture massoniche sia dagli aspetti più infantilistici della favola, portando invece in primo piano la vera storia di Tamino e Papageno, che compiono entrambi – sebbene in modi diversi, conformemente alle loro diverse personalità – uno stesso percorso, che non è quello dell'ingresso nella massoneria attraverso alcune prove rituali ma quello ben più difficile, misterioso, vitale dell'esistenza stessa, un percorso verso la comprensione di se stessi, verso l'amore per gli altri, verso la morte che è il punto d'arrivo di tutto. È molto coinvolgente ed emozionante a livello emotivo e allo stesso tempo induce a riflettere.
All'inizio dell'opera, sparito il terribile serpente, vediamo Tamino solo, vecchissimo e moribondo gridare terrorizzato "Zu Hilfe", in una scena che è un lungo tubo nero con una luce abbagliante in fondo, come nell'Ascesa all'Empireo di Hieronymus Bosch, un quadro piccolo ma grandissimo, che rappresenta il passaggio dalla vita all'aldilà. La scena cambia repentinamente e le tre Dame rivolgono le loro parole d'ammirazione per la bellezza di Tamino non ad un appetibile giovane ma ad un neonato in fasce, che rapidamente diventa un bambino, poi un adolescente. Da qui parte il suo viaggio esistenziale, che inizia con la scoperta dell'amore, che è poi la scoperta dell'altro e avviene non per il tramite di un ritratto inanimato, ma vedendo Pamina in carne e ossa passare in scena come un miraggio e scomparire subito dietro una cortina di fili luminosi, che rappresenta il sottile confine tra mondo reale e mondo interiore. È dietro quella cortina luminosa che appariranno poi le immagini proiettate dei volti della Regina della Notte e Sarastro (in realtà cantano stando nella buca dell'orchestra), perché i due princìpi diversi del bene e del male non sono esterni a noi ma combattono nel nostro interno. Per capire se stesso e il mondo, liberarsi delle paure e pulsioni negative, raggiungere il vero amore, Tamino non deve passare attraverso prove rituali che durano pochi minuti, ma impiega tutta la vita e invecchia e ingrigisce davanti ai nostri occhi di scena in scena. Infine si torna alla scena iniziale: Tamino è di nuovo vecchissimo nel tubo che sta per inghiottirlo nell'aldilà, ma ora può affrontare serenamente questo passaggio.
Certamente può essere uno shock, per chi sia affezionato alla favoletta con serpenti, fate cattive, genietti volanti e animali alla Walt Disney che danzano al suono del flauto, infatti qualcuno ha fischiato e buato, evidentemente non comprendendo che il senso profondo della favola del flauto magico c'era tutto, anzi veniva portato alla luce ed esaltato come non mai. Personalmente ritengo questa della giovane e semisconosciuta Jette la più bella della decina di Zauberflöte – tutte firmate da registi illustri – che ho visto in vita mia.
L'ottima compagnia di canto era formata interamente da giovani, molti dei quali debuttavano alla Staatsoper o debuttavano nel ruolo. Il turcmeno Dovlet Nurgeldiyev si è imposto come un Tamino di alto livello fin dalla prima aria, sia per le doti vocali (bellezza del timbro, controllo dei fiati, perfezione delle mezze voci, delicatezza delle sfumature dinamiche) che per l'intensa e sottile emozione dell'interpretazione. L'altra trionfatrice della serata era la greca Christina Poulitsi, che ha impressionato non tanto e non solo per la facilità, la precisione e la pienezza di suono nei sovracuti e nelle agilità, ma anche e soprattutto per la drammaticità e la forza nel registro medio-grave: sono rare le cantanti che possiedono entrambi questi aspetti della Regina della Notte. Molto bene anche la tedesca Christina Gansch, specialmente nei momenti più malinconici della parte di Pamina. L'inglese Jonathan McGovern è stato un Papageno profondamente umano, giocando sul sottile bilanciamento tra i lati buffi e patetici, con una comunicativa immediata che gli ha procurato la simpatia e gli applausi del pubblico. C'era anche un italiano, Andrea Mastroni, che è stato un impeccabile Sarastro.
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A Roma, prima con i complessi di Santa Cecilia, poi con Vokalensemble Kölner Dom e Concerto Köln