Il ritorno di Meyerbeer a Berlino
Alla Deutsche Oper di Berlino continua il recupero dei capolavori di Meyerbeer: di scena Le prophète
Alla Deutsche Oper di Berlino continua il recupero dei capolavori di Meyerbeer e, dopo L’Africaine e Les Huguenots, arriva Le prophète e riscuote un clamoroso successo. Successo che probabilmente non basterà a garantire un definitivo recupero di quel repertorio, su cui pesa l’enorme impegno produttivo in termini di masse e mezzi, di cui fortunatamente dispone la Deutsche Oper per presentare nel modo più compiuto l’opera di Meyerbeer. La prodigiosa macchina spettacolare messa in piedi dal compositore con i librettisti Eugène Scribe ed Emile Deschamps, un trionfo alla prima parigina del 1849, viene riproposta in una sontuosa esecuzione che rende gustizia della ricchezza musicale di una partitura dalle sorprese continue spalmate sull’arco di oltre quattro ore.
Gran timoniere della versione berlinese è stato Enrique Mazzola, giustamente festeggiatissimo dal pubblico anche fra un atto e l’altro, che con una direzione di grande equilibrio e molto attenta al difficile equilibrio con le voci fa brillare l’orchestra e i brillanti musicisti dell’orchestra della Deutsche Oper, alle cui qualità anche individuali dà rilievo particolare nella cura dei lunghi assoli o degli interventi “in dialogo” con i solisti della scena. Brilla dunque l’orchestra, ma mai a spese di una distribuzione vocale con pochissime debolezze e molti punti di forza: uno è sicuramente il protagonista Gregory Kunde, al debutto nell’eroico ruolo di Jean risolto con la nota eleganza nella linea vocale, che fa perdonare qualche opacità di timbro o durezza negli acuti. L’altra, la vera trionfatrice della serata, è Clémentine Margaine: finalmente una giovane mezzosoprano nel ruolo di Fidès che è anche interprete di calibro, vera coprotagonista al fianco del più maturo Kunde. Un protagonismo il suo che mette po’ in ombra le molte virtù del soprano Elena Tsallagova, la sposa promessa (e maltrattata) Berthe, dalla bella voce piena, coloratura precisa e buon temperamento drammatico. Inappuntabile il trio del direttorio anabattista con Derek Welton (Zacharie), Andrew Dickinson (Jonas) e Noel Bouley (Mathisen) così come il cattivissimo senza riserve Oberthal di Seth Carico. Fondamentale l’apporto del coro, forte e compatto, preparato da Jeremy Bines.
Per un trionfo assoluto e mancato purtroppo l’apporto della regia, curata da Olivier Py, cui pure non mancherebbe l’esperienza nel grand opéra. Anzi, forse proprio per eccesso di esperienza, Py sembra accontentarsi di fare il verso a se stesso, riproponendo un repertorio luoghi comuni che stanno diventando pericolosamente la norma del suo fare teatro. Incredibilmente Py manca l’obiettivo in un’opera che offre spunti molteplici. Attualizzare per attualizzare, perché non giocare la carta degli eccessi del fanatismo religioso, di cui la storia anche contemporanea offre generosi spunti? O perché magari non spingere sul pedale di relazioni ambigue se non malate? Invece Py si accontenta del consueto repertorio di immagini di metallo e neon costruite dal fidato Pierre-André Weitz, che dipingono una squallida periferia urbana abitata di personaggi in abiti anni ’40 di sapore resistenzale (ma a chi e cosa?) e mimetiche militari con generoso quanto corrivo sventolio di tricoleur quando si cita la Francia, e si appoggia alle sue consuete variazioni su sesso-violenza-peccato con esibizioni di torsi nudi quando non nudi tout court nell’immancabile orgia del sottofinale. Le licenze nella narrazione non sono poche ma la più vistosa è proprio nel finale con la rinuncia di Jean a far esplodere il palazzo con gli anabattisti e la scelta di suicidarsi con un colpo di pistola alla tempia.
Le uniche contestazioni sonore di una parte del pubblico sono per lui, Py, in ribalta in abito nero protestante e crocifisso di brillanti sul petto, dopo l’anticipo già alla fine del balletto orgiastico del terzo atto. Unica nota stonata di una serata musicale comunque memorabile. Si replica fino a gennaio.
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