Il debutto a Roma di Thomas Guggeis

Con l'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Sayaka Shoji e Enrico Pagano

Thomas Guggeis
Thomas Guggeis
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Thomas Guggeis, Sayaka Shoji, Enrico Pagano
13 Marzo 2025 - 15 Marzo 2025

Il trentaduenne Thomas Guggeis è arrivato al suo debutto romano preceduto dalla fama non più di giovane promessa ma di nuova solida realtà della direzione d’orchestra tedesca (che, sia detto tra parentesi, non sta attraversando un periodo molto fulgido, rispetto ad alcuni decenni fa). È una situazione difficile per un debuttante, perché viene giudicato da una commissione d’esame di più di duemila esaminatori e tutti si aspettano da lui qualcosa di straordinario. In questo caso i voti degli ascoltatori durante l’intervallo si aggiravano intorno alla sufficienza, ma alla fine del concerto la media si è molto alzata.

Andiamo per ordine. La prima parte del concerto era dedicata al Doppio Concerto per violino, violoncello e orchestra op. 102, ultimo lavoro di Brahms per l’orchestra sinfonica. Sembra che il cinquantaquattrenne compositore amburghese-viennese abbia messo da parte il progetto di una quinta sinfonia per dedicarsi entusiasticamente a quest’opera di nuova concezione - è infatti assolutamente fuorviante accostarlo ai concerti grossi del periodo barocco - che si sarebbe avvantaggiata dell’arte non di uno ma di due grandi interpreti, il violinista Joseph Joachim e il violoncellista Robert Hausmann, per i quali Brahms aveva già scritto pagine memorabili. Ma il risultato fu inferiore alle aspettative, come il confronto con i due concerti per pianoforte e con quello per violino dello stesso Brahms dimostra eloquentemente. 

Guggeis lo dirige con gesto energico e imperioso e l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia risponde impeccabilmente, producendo un bel suono, pieno, compatto e pastoso, come se ascoltassimo il Brahms di qualche direttore della vecchia scuola tedesca di derivazione wagneriana, prima che Karajan scoprisse le mille sfumature dell’orchestra brahmsiana. Sebbene non manchino momenti più vari e anche delicati, il suono prevalentemente massiccio e i tempi piuttosto lenti e pesanti di Guggeis non facilitano gli equilibri tra l’orchestra e i due solisti, già di per sé alquanto complessi e difficili.

Dopo la breve introduzione orchestrale, il prodigioso ventiduenne Ettore Pagano suona l’ampia cadenza affidata da Brahms al violoncello con libertà ed estro, come seguendo il filo di un pensiero musicale che si va creando sul momento: bellissimo e poetico. Poi si aggiunge il violino della quarantaduenne giapponese Sayaka Shoji, molto legata all’Italia, perché ha trascorso buona parte della sua infanzia e giovinezza a Siena, dove ha anche studiato alla Chigiana con Franco Gulli e Riccardo Brengola, e perché ha vinto il Concorso “Paganini” a Genova: è impeccabile ma ha un approccio un po’ distaccato, d’altronde è intervenuta all’ultimo per sostituire un collega indisposto e non ha avuto il tempo per trovare una perfetta sintonia con gli altri interpreti. Non è soltanto il rapporto tra orchestra e solisti a non essere perfettamente calibrato ma anche quello tra i solisti stessi, probabilmente perché molto diversi sono i loro strumenti: lei suona il favoloso Stradivari “Recamier” del 1729, dal timbro pieno e luminoso, lui un più modesto violoncello di Ignazio Ongaro del 1777, dal suono velato e smorzato, poco adatto alle dimensioni della Sala Santa Cecilia. Ma è proprio Pagano ad offrire i momenti più belli di quest’esecuzione del Doppio Concerto, che restano però isolati, tranne che nel lirico e malinconico Andante centrale, quando i tre protagonisti trovano una certa unità d’intenti. Gli applausi sono calorosi e i due solisti suonano come bis Gocce d’acqua, un gradevole brano interamente “pizzicato” e “pianissimo”, composto da Sibelius a sedici anni nel 1881 e pubblicato solo nel 1997.

Dopo l’intervallo Guggeis dirige due brani dedicati al momento fatale e misterioso che attende ogni essere umano: Les Préludes  di Franz Liszt e Morte e trasfigurazione  di Richard Strauss. A proposito di questo suo poema sinfonico Liszt scrisse: “Cos’è la nostra vita se non una serie di preludi a quel misterioso canto di cui la morte intona la prima nota solenne?”. In effetti il suo brano vuole essere una libera e poetica ricapitolazione dell’intera vita di un artista romantico, tra amori, illusioni, tempeste, battaglie e ideali e su questi aspetti punta la bella interpretazione di Guggeis, che ne attenua i risvolti funebri e gli eccessi retorici e accentua invece i momenti pregni di positivo ottimismo giovanile: d’altronde Liszt ne aveva iniziato la composizione a trentatré anni, quando più che alla morte pensava alla sua accesa vita sentimentale e al raggiungimento dei suoi ideali artistici. 

Ma che dire di Strauss, che era poco più di un ragazzo quando compose un brano funereo come Morte e trasfigurazione, che descrive gli ultimi momenti di vita di un uomo, “profondamente sofferente” e “torturato da orribili agonie”? Ma dopo la morte, ecco la trasfigurazione: “l’anima lascia il corpo per trovare realizzate in modo glorioso, in uno spazio eterno, quelle cose che non potevano essere compiuto in questo mondo”. Pensieri che non ci si attenderebbero da un venticinquenne, ma probabilmente questo poema sinfonico gli fu suggerito non dalle sue esperienze personali ma dall’ammirazione per Wagner. Da lui Strauss prese non soltanto i contorti cromatismi e alcuni procedimenti dell’orchestrazione ma anche un modello preciso: la morte di Isotta. Come Wagner, Strauss supera il macabro realismo dell’agonia, di cui c’è qualche traccia soltanto all’inizio, ed esprime con timbri e suggestioni musicali infervorati ed esaltati il passaggio catartico dal mondo materiale alla vita spirituale: la trasfigurazione prende il sopravvento sulla morte. Qui Guggeis è veramente grande e l’immaginazione si spinge a pensare che forse il suo nome in futuro sarà accostato a quello dei grandi che in anni lontani hanno diretto questo pezzo di Strauss a Santa Cecilia, come Furtwängler, Bruno Walter, De Sabata, Mitropoulos e, risalendo ancora più indietro, Mengelberg, Nikisch e Strauss stesso: per ora è solo un augurio. Lo aspettiamo a prove future. 

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