Il Mosè francese inaugura il ROF
Pesaro: grandiosa ma povera di drammaticità l’esecuzione di Moïse et Pharaon
A lungo sono state considerate due versioni quasi sovrapponibili della stessa opera ma Mosè in Egitto, rappresentata al San Carlo di Napoli nel 1818, e Moïse et Pharaon, rappresentata all’Opèra di Parigi nel 1827, sono due opere diverse. Non solo l’opera parigina ha un atto in più, il primo, ma anche buona parte della musica dei restanti tre atti è totalmente nuova, perché soltanto nove dei suoi diciassette numeri derivano dall’opera napoletana, che comunque furono tutti o profondamente modificati o almeno ritoccati, adattando le parti vocali alla prosodia francese e arricchendo l’orchestrazione. Inoltre Rossini riscrisse totalmente i recitativi, particolarmente importanti in quest’opera, e aggiunse le danze.
In sintesi Mosè in Egitto è più concentrata ed essenziale, senza molte divagazioni, com’erano le opere italiane già dai tempi di Metastasio e tanto più le opere scritte per il Teatro di San Carlo, dov’era stata adottata la riforma gluckiana, seppur tardivamente e parzialmente. Inoltre si tratta di una sorta di opera-oratorio da rappresentarsi nel periodo penitenziale della quaresima, quindi doveva essere austera e maestosa, non grandiosa. Invece Moïse et Pharaon è già un grand opéra, sebbene quella definizione sia entrata nell’uso solamente dopo qualche anno, e cerca la grandiosità e anche la varietà, ottenuta anche sviluppando due storie che procedono parallelamente, lo scontro tra gli egiziani oppressori e gli ebrei oppressi e l’amore impossibile tra un’ebrea e il figlio del faraone, cui è data molta più importanza qui che nella versione italiana. Inoltre, al contrario di quel che si potrebbe credere, la versione francese lascia ai cantanti più spazio per dimostrare la loro bravura. In estrema sintesi, la versione parigina aggiunge delle belle pagine a quella napoletana ma è più dispersiva. Preferire l’una o l’atra non ha molto senso, ma è comprensibile che ognuno faccia una propria scelta personale.
Per quasi due secoli si è rappresentato il Mosè in una versione raffazzonata, basata principalmente sull’opera parigina con vari tagli e aggiustamenti e con un testo italiano che non è quello originale del 1818 ma la traduzione di quello francese del 1827. È stato proprio il Rossini Opera Festival a far riscoprire le due versioni originali e ad alternarle nei suoi programmi. Pier Luigi Pizzi, che già nel 1983 aveva portato in scena a Pesaro la versione italiana, ha firmato regia, scene e costumi di questo nuovo allestimento della versione francese. In sintonia con la severa atmosfera biblica dell’opera, le sue scene sono meno sontuose del solito, perfino povere: Il palcoscenico assolutamente vuoto è limitato da due spoglie pareti laterali e da un fondale aperto ora sul cielo ora sul mare, su cui proiezioni semplici ma di effetto mostrano i prodigi compiuti dal dio degli ebrei. Alcune pedane di diversa altezza collegate da scale e rampe e una passerella intorno all’orchestra lasciano a Pizzi la possibilità di disporre i solisti e il coro in quadri grandiosi, ma ripetitivi, manierati e statici. Da segnalare la reintroduzione del Cantico finale, generalmente tagliato, che dà modo a Pizzi di concludere con un piccolo coup de théâtre, vestendo gli ebrei non più con tuniche all’antica ma con abiti di circa il 1950, probabilmente alludendo agli anni in cui nella terra promessa fu fondato il moderno stato d’Israele. In conclusione, si potrebbe dire che Pizzi ripropone un po’ stancamente il suo stile tipico, già visto tante volte, ma sicuramente questo ragazzo di novantuno anni tornerà presto a darci spettacoli pieni di vita e di idee, come è stata la sua precedente regia a Pesaro, Il barbiere di Siviglia del 2018.
I balletti amati tanto del pubblico dell’Opéra sono difficilmente conciliabili con la drammaturgia dei nostri tempi, ma Gheorghe Iancu riesce in qualche modo ad aggirare il problema con la sua coreografia astratta e, pur avendo a disposizione soltanto i due bravi primi ballerini Maria Celeste Losa e Gioacchino Staracee un corpo di ballo di quattro elementi quattro, è riuscito a tener desta l’attenzione del pubblico durante il lungo balletto del terzo atto.
Sul podio Giacomo Sagripanti si concentra soprattutto sul funzionamento di tutti gli ingranaggi di questa complessa partitura e ci riesce benissimo. Non ce la sentiamo di dar la colpa a nessuno se, avendo sulle spalle la fatica di quasi quattro ore di impegno, verso la fine arrivano un paio di attacchi leggermente sfocati. L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai conferma il suo ottimo livello e il Coro del Teatro “Ventidio Basso” di Ascoli Piceno preparato da Giovanni Farina è all’altezza delle difficile parte corale di quest’opera.
Entrando un po’ nei dettagli dell’interpretazione di Sagripanti, bisogna però dire che esalta soprattutto la grandiosità di Moïse et Pharaon: ne offre un esempio il finale del terzo atto, che già a Parigi nel 1827 fece furore, a cui la sua direzione imprime tempi veloci e sonorità possenti, con un effetto trascinante e irresistibile, scatenando un diluvio di applausi. Che la massima grandiosità fosse proprio quel che Rossini cercava in questa scena è dimostrato dal fatto che si tratta del quartetto “Mi manca la voce” della versione italiana, ampliato per Parigi fino a coinvolgere tutti i nove personaggi dell’opera, il coro e l’orchestra. Invece Sagripanti si lascia sfuggire i momenti in cui Rossini non cerca affatto la grandiosità, come avviene proprio nelle due pagine più straordinarie dell’opera, la scena delle tenebre, in cui si devono sentire il terrore, l’angoscia e il timor panico suscitati da tale prodigio, e la sublime preghiera di Mosè nell’ultimo atto: qui sotto la sua bacchetta le dinamiche contenute si trasformano in un’inerte calma, che non è certamente quel che Rossini voleva.
La preferenza del direttore per sonorità forti e cupe va a scapito di altri colori, di cui la musica di Rossini è ricca, e per di più costringe in vari momenti i protagonisti a forzare la loro voce. Eppure proprio i cantanti sono la carta vincente dello spettacolo. Roberto Tagliavini, pur non avendo la voce profonda e risonante di altri Mosè, ottiene con la nobiltà del suo canto la gravità, l’autorevolezza e la forza interiore del profeta biblico. Erwin Schrott (Pharaon) ha voce ampia, sonora e ben timbrata, ma il suo stile non è sicuramente il più appropriato a Rossini. La giovane Vasilisa Berzanskaya, perfezionatasi all’Accademia Rossiniana e già avviata a una più che promettente carriera, interpreta Sinaïde con voce piena e omogenea, che giunge fino a note acute proprie della corda di soprano più che di mezzosoprano, con agilità immacolate e con proprietà stilistica: è applaudita entusiasticamente dopo la sua grande aria, che Rossini, prevedendone l’effetto, pose strategicamente in chiusura del secondo atto. Le ardue e faticose parti pensate per due vedette dell’Opéra di allora, il soprano Laure Cinti-Damoreau e il tenore Adolphe Nourrit, toccano ad Eleonora Buratto e Andrew Owens, che interpretano l’impossibile e tormentato amore tra la giovane ebrea Anaï e il figlio del faraone Aménophis, unendo la passione allo stile, ma con qualche nota sforzata. Bene nei ruoli minori Monica Bacelli, Nicolò Donini e Matteo Roma.
Alla fine applausi calorosi e prolungati festeggiano la prima serata del festival, un'anteprima riservata alla stampa, agli sponsor e agli invitati. Il 9 agosto la "prima" ufficiale dalle 19 è in diretta su Radio3 Rai.
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