Il Bruckner del grande Herbert Blomstedt
Il quasi novantaquattrenne direttore è tornato sul podio dell’Accademia di Santa Cecilia dopo un quarto di secolo di assenza, lasciando un ricordo che non si cancellerà
Herbert Blomstedt, nato nel 1927, non è forse il più anziano direttore d’orchestra in attività ma sicuramente è il più anziano tra i grandi. In Italia è rimasto semisconosciuto fino a tempi recenti, poiché le sue presenze sul podio delle nostre orchestre sono state molto rare e soltanto negli ultimi anni è venuto un po’ più spesso, quasi sempre in tournée con orchestre internazionali. Personalmente lo avevo ascoltato due sole volte e sono stati due concerti perfetti, uno nel 2015 con i Wiener Philharmoniker in un programma beethoveniano (il Giornale della musica l’ha recensito qui ) e l’altro con la Dresdner Staatskapelle in un epoca così remota che non ricordo l’anno, mentre è incancellabile il ricordo della superba esecuzione della Sinfonia n. 4 di Bruckner da lui diretta in quell’occasione, culminante in un lunghissimo e possente crescendo finale, che ad ogni battuta sembrava aver raggiunto un vertice non più superabile e invece continuava a crescere e crescere, senza bisogno di mettere in campo una quantità assordante di decibel, anzi dosando attentamente le dinamiche e realizzando l’effetto del crescendo principalmente con un crescendo di tensione. Pensavo che tali crescendo fossero un segreto dei grandi direttori della vecchia scuola e anche che fossero possibili solo con orchestre che avessero la classe e la tradizione bruckneriana della Staatskapelle di Dresda.
Ora per la prima volta ho sentito Blomstedt dirigere un’orchestra italiana, quella dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (concerto trasmesso in diretta dalla Rai e visibile ora su raiplay.it) e in programma era ancora Bruckner, con la Sinfonia n. 5, che culmina con un finale che nelle grandi linee ricorda quello della Quarta. È un colossale crescendo, ma non un crescendo in senso stretto, quanto una struttura molto complessa, che combina ampie sezioni in crescendo con improvvisi ritorno al piano: l’effetto complessivo è comunque un’impressionante crescita sonora, ottenuta anche grazie alla sovrapposizione dei temi e all’infittirsi del tessuto musicale. “Una conclusione grande, solenne, certo una delle più esaltanti affermazioni musicali”, ha scritto anni fa Sergio Martinotti. Sono quasi dieci minuti, di cui gli ultimi tre - la coda vera e propria - raggiungono un vertice di tensione sonora che ha pochi confronti. Blomstedt ha ottenuto un risultato che non impallidiva affatto rispetto a quella lontana esecuzione della Quarta,sebbene ora non avesse a disposizione una delle maggiori orchestre tedesche, che ha una grande tradizione bruckneriana, ma un’orchestra italiana, che – diciamolo alto e chiaro - non ha affatto sfigurato al confronto, mettendoci tutta se stessa, con una concentrazione mentale totale e una tensione fisica spasmodica, ed ottenendo un risultato assolutamente stupefacente.
Anche nei precedenti tre movimenti Blomstedt è stato esemplare, magistrale. E c’era anche molto di più di queste qualità che si raggiungono con gli anni e l’esperienza. Era energico ma anche equilibrato il grandioso e complesso movimento iniziale, era magico il nobile e allo stesso tempo effusivamente cantabile Adagio, mentre lo Scherzo aveva una luminosità e uno slancio ritmico che facevano sembrare leggeri e volanti anche i robusti interventi degli ottoni.
Alto ed elegante, con lo sguardo vivo e il gesto ampio ed elastico (ma non chirurgico come quello dei direttori delle generazioni successive) Blomstedt ha lasciato anche questa volta un ricordo incancellabile. Alla fine, all’orchestra che lo applaudiva ha detto con un sorriso: “La prossima volta non aspettate altri venticinque anni prima di invitarmi di nuovo”.
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