I ricordi della Donna del lago

Michieletto "prendere o lasciare" al Rossini Opera Festival

Recensione
classica
Gli spettacoli di Damiano Michieletto sono così, prendere o lasciare: non sono ammesse vie di mezzo. E i pareri sono sempre fieramente contrastanti, uno stesso spettacolo per alcuni è “prendere”, per altri “lasciare”. Non fa eccezione La Donna del Lago che ha inaugurato il Rossini Opera Festival. Però, nonostante la regia abbia fatto di tutto per attirare tutta l’attenzione su di sé, è giusto dare la precedenza alla parte musicale, perché capita raramente di ascoltare un’esecuzione rossiniana di tale qualità. Ormai Michele Mariotti non deve più passare nessun esame, perché da tempo si è laureato “cum laude” in Rossini, ma va detto che questa volta ha fatto ancora meglio che in precedenza, cogliendo con grande sensibilità le varie e nuove inflessioni del linguaggio rossiniano, che conferiscono alla Donna del Lago un accento diverso rispetto alle altre opere serie italiane del pesarese e ne fanno un palinsesto del romanticismo musicale italiano, con le sue atmosfere sospese, ombrose e misteriose, il vigoroso risalto dei personaggi e l’energia drammatica.

È difficile immaginare un cast di livello così alto e così omogeneo come quello riunito dal Rof per quest’opera tanto esigente sotto l’aspetto vocale. Il pubblico è prevedibilmente impazzito per l’Uberto di Juan Diego Florez, che è tornato al suo Rossini con una vocalità meno pirotecnica rispetto a qualche anno fa, sostituita da una cantabilità più espansa e da un timbro più pieno. Ma la vera rivelazione della serata è stata Varduhi Abrahamyan, che nella lunga e diabolica cavatina d’entrata di Malcolm ha fornito un manuale vivente di bel canto, superando in scioltezza e con inalterabile omogeneità tra i registri tutte le trappole sparse a piene mani da Rossini, che qui si spinge fino al sadismo nei confronti dell’interprete. Paradossalmente la facilità sfoggiata dal contralto armeno era quasi eccessiva, poiché attenuava quel senso di baldanzoso eroismo nell’affrontare difficoltà insuperabili che è un aspetto del personaggio.

Le rivelazioni in realtà sono state due, perché anche Salome Jicia – soprano georgiano perfezionatosi all’Accademia Rossiniana di Pesaro – ha superato le più rosee aspettative nella parte di Elena, la protagonista. Michael Spyres (Rodrigo) ha innestato su un corposo registro centrale degli acuti in falsettone che potrebbero lasciare interdetto l’ascoltatore moderno, ma è così che facevano i baritenori dell’epoca di Rossini. A completare in modo assolutamente adeguato il quintetto dei protagonisti era il basso croato Marko Mimica (Douglas). Dunque nessun italiano tra i cinque protagonisti… e nemmeno tra i comprimari, che erano la spagnola Ruth Iniesta e l’argentino Francisco Brito. Giustamente il pubblico si è spellato le mani dagli applausi dopo ogni “numero”, ma si è avuta la sensazione che avesse confuso La Donna del Lago con una serie di arie e di pezzi d’insieme di grande bellezza ma privi di una chiara connessione tra loro. Ed in effetti era proprio questa l’impressione che si ricavava dalla regia di Michieletto, in cui la vicenda narrata dalla musica di Rossini con nettezza di contorni e urgenza drammatica era trasformata nel nebuloso ricordo degli eventi vissuti dai due protagonisti nella loro giovinezza (l’idea non è affatto nuova, se perfino un regista certamente non troppo innovativo come Zeffirelli aveva fatto qualcosa di simile in una lontana Traviata fiorentina).

L’idea di partenza, che poteva essere un suggestivo suggerimento offerto allo spettatore, era portata avanti in modo fin troppo consequenziale, al punto da diventare una palla al piede per lo spettacolo. Si vedevano così Elena e Malcolm, divenuti vecchi e impersonati da due attori, seguire sempre come ombre l’Elena e il Malcolm giovani, impersonati ovviamente dai due cantanti titolari, che si muovevano in un luogo della memoria, il palazzo dove si è svolta la loro storia d’amore, ormai abbandonato da anni e in rovina, con il soffitto crollato, i vetri rotti e i mobili sfondati. La rigogliosa vegetazione di canne cresciuta sul pavimento era l’unico accenno al lago del titolo, sparito insieme agli altri luoghi (il bosco, la grotta, il palazzo reale) descritti dal libretto, che non sono soltanto ambientazioni pittoresche, ma luoghi emblematici del melodramma protoromantico. I connotati della Donna del Lago venivano in tal modo totalmente stravolti, ma ciò non toglie che tutto sia stato realizzato con la consueta abilità da prestigiatore da Michieletto e che Paolo Fantin abbia realizzato una scenografia prodigiosa.

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