Donizetti fra successi e riscoperte
A Bergamo si chiude il Donizetti Opera con un notevole “Roberto Devereux”, un deludente “Don Pasquale” e l’interessante recupero di “Zoraide di Granata”
Donizetti anno 10. Il festival nato solo dieci anni fa attorno al 29 novembre, “dies natalis” del compositore bergamasco, è cresciuto, ha oggi un profilo ormai ben definito e una capacità di attrazione che supera i confini nazionali. Insomma, alla vigilia del cambio di guardia alla direzione artistica il festival è in buona salute e sarebbe auspicabile potesse continuare a esserlo anche nel prossimo decennio.
Intanto la formula consolidata continua anche per l’anno 10 con tre produzioni liriche, due al Donizetti e una al Sociale, la ripresa della versione “off” di Lucia ossia LU Opera Rave, oltre a numerosi eventi collaterali. Forse un po’ più timido sul piano delle riscoperte rispetto a edizioni anche recenti, il Donizetti Opera 2024 offre comunque una gemma dal generoso catalogo donizettiano nell’ambito del ciclo #donizetti200 a duecento anni dal debutto. Quest’anno tocca a Zoraida di Granata, primo grande successo del compositore, il cui debutto in effetti risale al 1822 al Teatro Argentina di Roma ma al 1824 si deve una seconda versione, significativamente rimaneggiata (anche da Jacopo Ferretti per il libretto) ancora per l’Argentina, accolta però con più freddezza. Nuova sì ma non abbastanza per accontare un pubblico allora bramoso di novità. E la versione 1824 è anche scelta per l’allestimento visto al Teatro Sociale coprodotto con il Festival di Wexford, dove lo spettacolo è stato presentato un anno fa.
Si parla di Abenceragi nell’opera di Donizetti e non si può non pensare all’opera Les Abencérages di Luigi Cherubini del 1813 (fra l’altro recentemente recuperata dal Palazzetto Bru Zane nella sua collezione di Opéra Français: la fonte in effetti è la stessa, cioè il romanzo storico Gonzalve de Cordoue di Jean-Pierre Claris de Florian del 1791, che ispirò praticamente un filone di opere storiche a partire dalla scaligera Abenamet e Zoraide di Giuseppe Nicolini del 1805 ma anche dell’Esule di Granata del Meyebeer pre-grand opéra presentata alla Scala nello stesso anno della prima della Zoraide donizettiana. Un percorso “orizzontale” che potrebbe forse un giorno allargare il Donizetti Opera non solo al venerato maestro Mayr come già in scorse edizioni ma anche ai contemporanei lungo sentieri inediti in territori ancora inesplorati dell’opera italiana e non solo dei primi decenni dell’Ottocento.
Tornando a Zoraide, siamo nella Granada della metà del XV secolo dominata dagli Arabi. Zoraida è la figlia del deposto re di Granada e ama Abenamet, capo degli Abenceragi, ma è a sua volta amata da Almuzir, l’usurpatore del trono. Per toglierselo dai piedi, Almuzir nomina Abenamet generale dell’esercito che dovrà combattere gli spagnoli, affidandogli lo stendardo della città. Abenamet trionfa ma torna senza lo stendardo e viene quindi accusato di tradimento e frettolosamente condannato a morte. Per salvargli la vita Zoraida accetta di sposare Almuzir. Durante un incontro clandestino per congedarsi da Abenamet, Zoraide viene accusata di tradimento e condannata ad essere arsa sul rogo a meno che qualcuno non si batta a duello con Alj, confidente di Almuzir e suo accusatore. Naturalmente Abenamet ricompare prende le difese dell’amata e convola a nozze con lei benedetto da Almuzir.
Succede abbastanza poco nell’opera ma Donizetti sceglie un grande formato, chiaramente ispirato al modello serio stabilito da Rossini (anche come durata siamo di poco sotto la Semiramide che arriva fra le due versioni). Manca sicuramente di sintesi drammatica ma non si può chiedere l’impossibile a un venticinquenne, che però qualche gemma la regala anche in questa sua partitura, come la delicata “Rose che un di’ spiegaste” con un intimistico accompagnamento cameristico degli archi. Ad Abenamet vengono invece riservate le arie più virtuosistiche, compreso lo spettacolare rondò finale “Da un eccesso di tormento”, che trasforma la prova già maiuscola di Cecilia Molinari in un autentico e meritato trionfo. Buono ma non straordinario anche il resto del cast, con Konu Kim, piuttosto sicuro nelle asperità siderali del ruolo di Almuzir (ruolo che fu del grande Domenico Donzelli) ma poco espressivo, e Zuzana Marková, una Zoraida con qualche difficoltà nell’acuto ma abbastanza estranea allo stile belcantista di primo Ottocento. Una sorpresa l’Alj del giovane basso Valerio Morelli, “garzone” della Bottega Donizetti, impeccabile nell’aria “Sì, vi tradì” la sorte” interpretata con una sicurezza vocale che ricorda il giovane Ramey. Più discrete le prove di Lilla Takács (Ines) e Jesús “Tuty” Hernàndez (Almanzor). Tira le fila del discorso musicale Alberto Zanardi sul podio degli Originali: i tempi piuttosto distesi ma inappuntabile il sostegno al canto e al dettaglio strumentale.
Non coglie i molti spunti dell’attualità il regista Bruno Ravella, che invece guarda al passato prossimo della guerra di Bosnia e chiede allo scenografo Gary McCann di ricostruire le architetture moresche della Biblioteca di Sarajevo deturpata dalle bombe, cogliendo qualche affinità politica fra la città martire della guerra e la Granada del 1480. Costumi (ancora di McCann in collaborazione con Gabriella Ingram) ovviamente intonati all’epoca aggiornata con gran dispiego di mimetiche e armi giocattolo. Sembra tutto un po’ al risparmio anche di idee e di cura del dettaglio ma lo spettacolo funziona.
Pescano fra i titoli più noti di Donizetti, invece, gli altri due spettacoli. Don Pasquale è opera piuttosto frequente sui nostri palcoscenici e da un festival specialistico come questo magari è lecito aspettarsi qualcosa di speciale. Di speciale, invece, c’è assai poco e di sicuro non l’allestimento di Amélie Niermeyer condiviso con l’Opéra de Dijon, moderno solo nello stile scelto dalla scenografa Maria-Alice Bahra per la casa tutta design contemporaneo di Pasquale (con buona pace della spiritata Norina per la quale resta vero che “sono anticaglie i mobili, si denno rinnovar”). Le commedie, specie quelle rodate per secoli, funzionano a patto che non si inceppi il loro meccanismo buttando sabbia negli ingranaggi. La sabbia di Niermeyer, tutto sommato, è poca cosa e limita i danni: un paio di cartelli inneggianti all’“amore libero” e a quello che “non ha età e non ha confini”. Il resto si muove su binari consolidati se non banali e qualche fiacca gag. Fiacco è anche il finale con l’abbandono dello stagionato consorte e la fuga di Norina a bordo della sua auto, che vorrebbe essere un gesto femminista (ah, l’attualizzazione!) ma lo è nel libro delle buone intenzioni.
Le cose sul piano musicale vanno meglio nonostante la direzione frenetica e piuttosto fracassona di Iván López-Reynoso che mette da parte il coté sentimentale per dare soprattutto risalto alla verve rossiniana della partitura. Sul palcoscenico il protagonista Roberto de Candia mette in campo il consueto repertorio del buffo di antica scuola. Una grande verve e freschezza sono la cifra della Norina di Giulia Mazzola e del Malatesta di Dario Sogos, giovane voce della Bottega Donizetti ma più che maturo sia sul piano vocale che scenico. Non del tutto in forma vocale è invece l’Ernesto di Javier Camarena che sembra piuttosto estraneo al ruolo del giovane innamorato.
Lo spettacolo di punta è il Roberto Devereux, capitolo finale della “trilogia Tudor”, che consacra il titolo al conte di Essex, amore senile della regina Elisabetta I, vera protagonista dell’opera, cui spetta naturalmente la grande scena finale. Nello spettacolo dalle austere scenografie lignee ispirate ai teatri di epoca elisabettiana di Katie Davenport, che firma anche i sontuosi costumi di foggia seicentesca, allestito da Stephen Langridge al Teatro Donizetti, il finale chiude il cerchio di una morte annunciata già nei diversi segnali disseminati nel racconto scenico. Elisabetta si spoglia dei segni più iconici della sua immagine regale e si mostra in tutta la sua dimessa umanità, quasi un “memento mori” di plastica incisività. Preziose le luci taglienti di Peter Mumford che danno spessore pittorico all’allestimento rinviando alla grande pittura fiamminga del Secolo d’oro.
Davvero eccellente il cast vocale, che ha per protagonisti Jessica Pratt, un’Elisabetta imperiosa ma anche fragile e soprattutto vocalmente smagliante, e John Osborn, un Devereux passionale e tormentato che è anche un modello di interpretazione. All’altezza pure la coppia antagonista della Sara ben cesellata da Raffella Lupinacci e del Nottingham di Simone Piazzola, inquieto e cantato con generosa partecipazione emotiva. Nei ruoli minori, si distingue particolarmente il giovane basso Ignas Melnikas, altro allievo della Bottega Donizetti, in un Gualtiero reso con accenti nobili. In buca si distingue ancora una volta per gusto e competenza il direttore musicale del festival Riccardo Frizza https://www.giornaledellamusica.it/articoli/cercando-il-suono-autentico-di-donizetti. Come negli altri allestimenti, anche in questo notevole Devereux il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala preparato da Salvo Sgrò si distingue per impegno e musicalità. Un patrimonio coltivato nelle scorse edizioni, che ci si augura non vada disperso in futuro.
Insomma, il festival Donizetti Opera chiude anche l’edizione 2024 con numeri in crescita e un grande interesse anche internazionale. Ma è già tempo di voltare pagina.
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