Don Carlo secondo Gatti
Personalissima lettura della versione italiana del capolavoro verdiano nella Sala Grande del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino dopo i lavori sul palcoscenico
Come promesso, la sala da duemila posti più o meno del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino è stata riaperta, dopo i lavori di completamento delle attrezzature del palcoscenico, per ospitare questo Don Carlo che andava a completare il minifestival verdiano imperniato sul Verdi spagnolo con Trovatore, Ernani, di cui abbiamo a suo tempo riferito, e quest’ultima produzione. Mirabolanti lavori che rendono questo palcoscenico, a detta di Dario Nardella, sindaco di Firenze e presidente del teatro, “una macchina scenica che non ha eguali in Europa", ma che peraltro non hanno risolto il problema di fondo di questo teatro per ciò che riguarda l'opera. E cioè, come abbiamo più volte rilevato, l'enorme distanza fra direttore e palcoscenico creata dall'abnorme dimensione della buca dell'orchestra, che crea come un muro massiccio di suono, suono, oltretutto, magnificato dall'acustica studiata per questa sala, che dovrebbe essere la sala per l'opera (lasciando gran parte del repertorio sinfonico alla Sala Mehta da mille posti), mentre invece è il sound orchestrale a guadagnarne.
Ne vengono problemi sempre, ma in particolare in questo caso. Questa versione italiana in quattro atti (che ereticamente confessiamo di preferire) è più concentrata, più tragica e più “politica”, ma resta comunque da governare la sua originaria natura di Grand-opera con le sue masse sonore, i gruppi vocali e strumentali fuoriscena, e via dicendo. Il che, su questo piano, tutto sommato, ha funzionato in modo soddisfacente. Ciò che è mancato, stando a questa prima recita del 27 dicembre, era l'interazione, il corrispondersi fra direttore e interpreti in scena. Gatti ha fatto un lavoro splendido con l'orchestra, sul piano del fraseggio e della timbrica, con andamenti molto respirati, ma non massicci, anzi assai flessuosi, e una grande eleganza di tratteggio complessivo, una lettura degna della complessità di idee musicali della splendida maturità verdiana. Tratteggio prevalentemente lirico se non intimista, però con accensioni assai marcate di tragica potenza, e pensiamo ad un luogo topico della più tenebrosa tragicità verdiana, come l'entrata del Grande Inquisitore. Purtroppo però a questo ben risolto lavoro con l'orchestra, che rifletteva una visione chiara e profonda della partitura, è mancata un'efficace risposta del palcoscenico, per motivi e diciamo “colpe” in parte definibili, in parte forse no. Nel primo e secondo atto fino alla scena di massa dell'autodafè c'era inoltre l'impressione di una certa nervosa insicurezza, che poi si è in gran parte risolta nei due atti successivi, e indubbiamente la qualità musicale è andata decisamente migliorando, e non di poco.
Resta però il giudizio su un casting sbagliato in quanto non all'altezza delle richieste e delle esigenze implicate dalla lettura di Gatti, e che forse ne è stato messo in difficoltà. Facevano eccezione i due protagonisti. C'era una magnifica Eleonora Buratto come Elisabetta, brava sempre, ma che soprattutto nell’ultima sua grande scena, in “Tu che le vanità”, ci ha mostrato come una natura vocale di un lirismo purissimo possa convivere con un accento tragico profondo ed emozionante. In questa scena si è fatta ammirare anche la sicura navigazione fra gli scogli delle note gravi. Anche Francesco Meli, Carlo, è notoriamente un cantante musicalmente molto accorto e attento al testo, nonché alle letture in profondità suggerite da direttori e registi, anche se resta la convinzione che questo non sia il suo repertorio, e che lo sforzo che fa per affrontarlo si senta. Ma erano molto deludenti Mikhail Petrenko come Filippo II, che ci è sembrato fuori parte per un ruolo tormentato ma regale e statuario di baritono-basso – e qui di basso c'era poco – e la Eboli di Ekaterina Semenchuk, che c'era piaciuta come Azucena nel Trovatore di qualche mese fa, ma la cui fosca vocalità, pur capace di sfoderare qualche bell'acuto d'acciaio in “O don fatale", non poteva uscire bene né dalle eleganze della Canzone del velo né dal disegno complessivo di una delle dark ladies più complesse e interessanti della storia dell'opera. Meglio, e in crescita nel corso della recita, Roman Burdenko come Rodrigo di Posa, ma anche qui la natura ambigua e aristocratica del personaggio non è stata del tutto centrata. Le ardue e artificiose scansioni della non felicissima versione ritmica di de Lauzières e Zanardini del testo francese di Mery e du Locle non aiutavano di sicuro questi cantanti slavofoni, va detto, però hanno fatto molto bene i giovani bassi Alexander Vinogradov, il Grande Inquisitore, e Evgeny Stavinskiy, il Frate. Bene anche Benedetta Torre come Voce dal cielo. Fra gli esecutori in orchestra è doveroso ricordare il primo violoncello Patrizio Serino per la bella esecuzione del grande assolo che introduce la scena di Filippo, e in generale l'orchestra è stata brava davvero e capace di rispondere alle esigenze di Gatti.
La messinscena non è certo il problema di fondo di quest'edizione, almeno a quel che ci è dato di capire, e ci limitiamo a dire che il team Roberto Andò, Gianni Carluccio e Nanà Cecchi, regia, scene, luci, costumi, riesce a comunicare un ferrigno e tetro Cinquecento spagnolo controriformistico senza spettacolarità ma con buona efficacia narrativa, grazie ad un dispositivo multifunzionale volta a volta chiostro, giardino, cattedrale, reggia, prigione, nobilitato dalle belle velature che sembravano voler sottolineare la loro identità comune di luoghi del potere o abusati dal potere. Il successo finale è stato più che buono in un teatro per una volta pienissimo, ma a confermare quel che di nervoso, di stressato, di carente quanto a “corrispondenza d'amorosi sensi" che avevamo sentito all'inizio, un episodio stranissimo è venuto a chiudere questa serata: Eboli-Semenchuk non si è presentata alla ribalta, lasciando un tempo d'attesa inconcepibilmente lungo nel rito degli applausi finali fino a che la Buratto non ha risolutamente posto fine all'imbarazzo generale, entrando lei. In tanto decenni di opera a Firenze, una cosa così non l'avevamo vista proprio mai.
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