Die Dreigroschenoper al Romaeuropa Festival
Discutibile la regia di Barrie Kosky ma perfetta la realizzazione da parte del Berliner Ensemble
Die Dreigroschenoper, nata dalla collaborazione paritaria tra Bertolt Brecht e Kurt Weill, è uno dei capolavori del teatro musicale del ventesimo secolo, e sottolineo musicale. Ma in quasi cent’anni (la prima esecuzione fu nel 1928) è passata attraverso continui riadattamenti, riduzioni e trasformazioni e progressivamente la musica di Weill ha perso terreno, fino al punto che in alcune edizioni ne restavano alcune canzoni (che sono diventate i pezzi più famosi dell’Opera da tre soldi) e poco altro. Ma nel 2007 la produzione di Robert Wilson al Berliner Ensemble (vista anche in a Spoleto e Reggio Emilia ) recuperava tutta la musica di Weill.
Anche in questa nuova produzione realizzata dal Berliner Ensemble - che potrebbe essere definito il santuario brechtiano, se la parola santuario non suonasse decisamente stonata in riferimento a Brecht - la musica di Weill è integra, come afferma il regista australiano Barrie Kosky. Anzi c’è qualcosa di più, come la canzone di Lucy nel terzo atto, di cui è restata soltanto la stesura con accompagnamento del pianoforte, dato che si decise di tagliarla prima della prima, forse perché avrebbe richiesto un vero soprano drammatico: non si riesce a spiegare altrimenti l’eliminazione di uno dei momenti più belli della musica di Weill.
Dunque abbiamo assistito ad un’edizione supercompleta e superfedele? NO, assolutamente NO. E non perché Kosky si prenda alcune piccole libertà con la musica, come ripetere alcuni frammenti dei vari “numeri” in contesti diversi e dare spazio a un paio di improvvisazioni jazz della batteria. Questa volta non è Weill ma Brecht ad essere stato totalmente e volutamente travisato. È fuori discussione che un lavoro teatrale – soprattutto Die Dreigroschenoper, che è nata come una critica alla società dei suoi tempi - non debba essere mummificato ma possa e debba continuare a vivere e a cambiare, per continuare a parlare da pari a pari agli spettatori di cent’anni dopo. Ma Kosky, più che attualizzare l’opera di Brecht e Weill, l’annacqua e ne fa qualcosa che sta tra il vecchio varietà televisivo e la musical comedy di Broadway, con alcuni momenti che virano decisamente verso il farsesco, come afferma Kosky stesso. E così suscita nel pubblico molte risate, grida da concerto rock e fischi all’americana. In particolare riscuote grande successo la facile, artificiale (c’era la complicità di un finto spettatore) e ormai scontata interazione col pubblico, allorché Mackie Messer (interpretato da Nico Holonics, non meno che straordinario) si rivolge al pubblico, sfoderando nell’occasione un ottimo italiano, per invitarlo a cantare in coro una canzone (non so dire se fosse sempre la stessa o se cambiasse ogni sera). Forse Kosky (ma non direi proprio che fosse questa la sua intenzione) voleva in tal modo dimostrare che la gente è disposta a seguire chiunque sia abbasta abile da abbindolarla?
Così non c’è più la graffiante critica di Brecht alla società capitalista: eppure sarebbe ancora attuale e i nostri tempi avrebbero fornito a Kosky spunti in quantità sovrabbondante. Sparisce il losco sottobosco di ladri e puttane su cui regna Mackie Messer (significa coltello: già questo sarebbe indicativo), il quale viene trasformato in un simpatico e seduttivo intrattenitore, mentre il capo della polizia Tiger Brown è ridotto ad un omuncolo debole e ridicolo, forse attratto sessualmente da Mackie. Il centro dell’opera diventa invece il triangolo amoroso Mackie – Polly – Lucy: le due donne si litigano l’uomo, che da parte sua si divide tra loro senza tanti problemi. Va a finire che anche la musica di Weill, sebbene eseguita nella sua completezza, non ne esce troppo bene, perché la sua simbiosi col testo è tale che sminuendo l’uno anche l’altra non può non risentirne.
Detto ciò, bisogna riconoscere che lo spettacolo è perfettamente realizzato (è perfino superfluo sottolineare la bravura degli attori, cantanti e musicisti del Berliner Ensemble), molto teatrale (Kosky conosce benissimo il mestiere di regista) e soprattutto divertente, almeno a giudicare dagli applausi entusiastici della grande maggioranza degli spettatori che straesaurivano il Teatro Argentina. Forse bisogna ringraziare Kosky perché in mezzo a pandemia, guerre, siccità e carestie ci ha fatto fare qualche risata? O forse questa sterilizzazione di Brecht è un altro segno (fortunatamente meno esiziale degli altri) dei tempi difficili che la nostra società sta attraversando?
Come che sia, il Romaeuropa Festival ha fatto benissimo a far conoscere anche al pubblico italiano uno degli spettacoli di cui più si parla tra quelli attualmente in scena nei principali teatri europei.
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