Danzando l’anima della città

Alla Deutsche Opera am Rhein di Düsseldorf “Surrogate Cities” di Heiner Goebbels diventa un balletto con le coreografie di Demis Volpi

Surrogate Cities  (Foto Bettina Stoess)
Surrogate Cities (Foto Bettina Stoess)
Recensione
classica
Düsseldorf, Deutsche Oper am Rhein (Opernhaus)
Surrogate Cities
24 Aprile 2024 - 19 Maggio 2024

Surrogate Cities è un tentativo di affrontare il fenomeno della città da diversi punti di vista, di raccontare storie di città, di esporsi ad esse, di osservarle. è materiale sulle metropoli che si è accumulato nel corso del tempo.” Questo è secondo il suo autore Heiner Goebbels Surrogate Cities, pezzo iconico nella multiforme produzione del compositore, scritto per celebrare i vent’anni della Junge Deutsche Philharmonie e tenuto a battesimo a Francoforte sul Meno ormai trent’anni fa. Come tutti i lavori di Goebbels, anche questo nasce da stimoli e spunti molto diversi e lontani – e tre sono le fonti dichiarate, cioè il Paul Auster di The Country of Last Things, l’Heiner Müller di Three Horatian e l’Hugo Hamilton di Surrogate Cities, che presta il titolo al lavoro – così come molto diversi sono i linguaggi musicali attraverso i quali si esprime la musica di una grande città con i suoi ritmi frenetici, violenti, martellanti, ma anche con le sue oasi di pace, le molti voci diverse e qualche canzone struggente.

A Düsseldorf Surrogate Cities è diventata la colonna sonora del lavoro più recente per il Ballet am Rhein firmato da Demis Volpi, direttore e coreografo principale della compagnia dalla stagione 2020-21 e prossimo alla partenza per Amburgo per raccogliere il testimone del patriarca locale John Neumeier. Non è la prima volta che la composizione di Goebbels viene messa al servizio della danza: lo stesso Goebbels scelse di farlo con la complicità della coreografa Mathilde Monnier nel 2014 a Duisburg a conclusione del suo triennio alla guida della Ruhrtriennale. Se allora si trattava quasi di un’occasione per una grande festa dedicata alla metropoli diffusa della Ruhr e ai suoi quasi 5 milioni di abitanti, quello dell’Opernhaus di Düsseldorf è uno spettacolo che si muove lungo binari più classici e pensato per l’intero corpo di ballo con la sua quarantina di danzatori e per i musicisti dei Düsseldorfer Symphonikerguidati dal loro direttore Vitali Alekseenok. Danza e musica dividono il palcoscenico, l’orchestra sul fondo e i danzatori in primo piano, racchiusi fra pochi elementi scenografici di Katharina Schlipf, che sembrano tradurre la metropoli ideale di Goebbels in una New York cinematografica, molto cupa e bagnata e con vapori che escono dai tombini. Neri sono anche quasi tutti i costumi disegnati da Thomas Lempertz che vogliono rappresentare l’uniformità della grande città ma anche la varietà di forme che esaltano le individualità di ognuno.

L’intera compagnia di danza è riunita sul palco, rivolta all’orchestra, quando la musica si prende la scena, con l’assolo del trombone (amplificato, per registrarne il più tenue respiro) di Matthias Muche, fatto di suoni disarticolati che via via prendono forma e lasciano spazio alla voce potente dell’orchestra al completo, con i ritmi martellanti delle percussioni e il fragore ossessivo degli ottoni, spesso protagonisti.

La coreografia di Demis Volpi non racconta una storia, ma tante storie: storie di singoli individui attraverso il succedersi incalzante di assoli di grande forza espressiva (soprattutto quelli di Miquel Martínez Pedro e di Jake Bruce), di coppie in una reinvenzione nel segno del contemporaneo del “pas de deux” e di una intera collettività attraverso gli ensemble di grande forza anche figurativa, che danno forma plastica al movimento e alla frenesia della metropoli. Fra i momenti più riusciti della serata ci sono le tre “songs” The Horatian intonate con estro jazzistico da Tamara Lukasheva, descrizione del duello fra Orazi e Curiazi tramandato nelle cronache di Tito Livio e riproposto qui nei versi taglienti come lame di Heiner Müller. Su quel canto, due uomini si studiano, si affrontano, lottano con movimenti in sincrono, quasi ad alludere a un’affinità spirituale come esseri umani prima ancora che nemici. E poi il finale, tutto per Jake Bruce che, microfono davanti alla bocca, presta la voce e i movimenti frenetici e senza tregua del corpo all’angosciante sequenza di domande senza risposta del frammento di Surrogate Cities di Hugo Hamilton: “She has been running. What for? What makes a young woman run? During the day? in the city? … Running in the street makes you look like you don’t belong.” Una ricerca di identità e di senso che si spegne nel buio della scena vuota.

Sala al completo. Accoglienza entusiastica.

 

 

 

 

 

 

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