Che bello il pubblico di Mito!
A Milano giovani e neofiti scoprono la classica
Recensione
classica
E così, ancora una volta siamo rientrati al Teatro alla Scala non per presenziare all’inaugurazione della nuova stagione teatrale, bensì a quella del festival MiTo: da quattro anni a questa parte, è tradizione che una blasonata orchestra – e direttore a seguito – facciano tappa a Milano della loro tournée e si ritrovino coi leggi pronti e sistemati sul palcoscenico del teatro d’opera più famoso d’Italia. La questione mi ha sempre suscitato qualche perplessità: 1) MiTo è indubbiamente un festival che deve fare di necessità virtù, per cui va benissimo che le occasioni di ascoltare le grandi orchestre siano di fatto semplici tappe di un tour: però, almeno per l’inaugurazione, non si potrebbe impaginare qualcosa ad hoc, esattamente come viene fatto per le chiusure? 2) La Scala è un palcoscenico per cantare, quando ci piazzi sopra un’orchestra di un centinaio di elementi l’acustica è quella che è (soprattutto in platea): davvero non esiste altro luogo dove inventarsi un concerto di inaugurazione? 3) I punti 1 e 2 sono fra le cause di concerti non sempre memorabili: nel 2007, Mehta e la Israel Philharmonic Orchestra ci addormentarono con una Settima di Mahler da dimenticare; nel 2008, Jansons e la Royal Concertgebouw portarono a casa il compitino di turno, senza lasciare particolare ricordo di sé, come invece fecero Temirkanov e l’Orchestra di San Pietroburgo l’anno successivo. Insomma, anche quest’anno le cose non sono andate diversamente: Riccardo Chailly avrà pure giocato in casa, ma a fare da Kapellmeister all’orchestra del Gewandhaus di Lipsia si rischia di dimenticare le proprie origini; così, lo Chailly che ricordavamo animatore delle serate dell’Orchestra Verdi, fulminante direttore d’opera ancora ragazzino (ok, io non ero ancora nato, ma i dischi li ascolto), a contatto con la gloriosa tradizione musicale teutonica sembra dirigere benissimo, ma aver dimenticato il cuore a casa.
Non sono andato all’inaugurazione la sera del 3 settembre (ne ha scritto qui Susanna Franchi): ho preferito godermi con calma la serata successiva, quando Chailly ha proposto l’esecuzione del Konzertstück per 4 corni e orchestra di Schnumann e la Terza Sinfonia “Renana”. Pezzi deliziosi, benissimo suonati da un’orchestra che ha sempre bel suono (ma sempre sempre), non ha un’arcata fuori posto, non fa scroccare un corno manco a pagarlo: e che noia, signora mia! È proprio il guizzo, che manca: quel dettaglio impercettibile che ti cambia le sorti della serata non l’abbiamo trovato; neanche nella decisamente più divertente esecuzione smaliziata dell’ouverture “Ruy Blas” di Mendelssohn. Il quale, peraltro, accanto a un gigante come Schumann non sfigura affatto. Ma nei primi giorni di festival ho avuto modo di dedicarmi con attenzione anche ad altro: il pubblico, per esempio. Bellissimo. Passeggiare in via Filodrammatici ed essere accolti da un gruppo di adolescenti che, trafelate, chiedono dove sia l’ingresso di questa fantomatica “II galleria”, è una cosa che non ha prezzo. Così come non ha prezzo il non dover subire all’uscita dei concerti quella vera e propria tortura che è il giudizio ad alta voce degli abbonati storici: sordi come delle campane fin dalla tenera età, si sono da sempre arrogati il diritto di far sapere al mondo che loro sì hanno capito il senso ultimo della musica, qualunque essa sia. A MiTo tutto questo non avviene: proprio perché per la maggior parte delle persone si tratta di una prima volta, o semplicemente perché non sono abbonati storici, il senso del rispetto li porta ad uscire dalla sala con sorrisi felici e qualche commento bisbigliato. Quegli stessi sorrisi che ho visto domenica pomeriggio all’uscita dall’abbazia di Chiaravalle, quando dopo un’ora e mezza di Josquin senza intervallo, moltissimi sono apparsi come galvanizzati: non era un concerto facile, né tantomeno scontato; Clemencic ha portato il suo storico ensemble ad ipnotizzare un pubblico che ha gremito la navata di Chiaravalle (venendoci apposta: mezzi pubblici scarsini, di domenica pomeriggio, poi) con ascolto attento e disincantato. Niente facce estatiche, ma tanti pensieri fra quelle note.
Tanto allegro casino, invece, ieri sera per il concerto di Lang Lang, Semyon Bychkov e la Filarmonica della Scala al Palasharp: qui, 8000 persone sono riuscite miracolosamente nell’intento di ascoltare in silenzio tutto il Concerto per pianoforte di Caikovskij, tributando a Lang Lang ovazioni e fans in delirio come nei concerti rock. E non importa se l’arena ha un’acustica penosa, se si applaude dopo il primo movimento (anche della Sinfonia n° 6), se il viavai di gente crea qualche rumore di fondo, se Lang Lang sia uno dei pianisti più sopravvalutati del pianeta. È bello esserci per dimostrare che Milano È una città musicale, a dispetto di quello che pensano i nostri governanti. Sul tutto, ascoltare Caikovskij sorseggiando una birra appena spillata, non ha prezzo.
Non sono andato all’inaugurazione la sera del 3 settembre (ne ha scritto qui Susanna Franchi): ho preferito godermi con calma la serata successiva, quando Chailly ha proposto l’esecuzione del Konzertstück per 4 corni e orchestra di Schnumann e la Terza Sinfonia “Renana”. Pezzi deliziosi, benissimo suonati da un’orchestra che ha sempre bel suono (ma sempre sempre), non ha un’arcata fuori posto, non fa scroccare un corno manco a pagarlo: e che noia, signora mia! È proprio il guizzo, che manca: quel dettaglio impercettibile che ti cambia le sorti della serata non l’abbiamo trovato; neanche nella decisamente più divertente esecuzione smaliziata dell’ouverture “Ruy Blas” di Mendelssohn. Il quale, peraltro, accanto a un gigante come Schumann non sfigura affatto. Ma nei primi giorni di festival ho avuto modo di dedicarmi con attenzione anche ad altro: il pubblico, per esempio. Bellissimo. Passeggiare in via Filodrammatici ed essere accolti da un gruppo di adolescenti che, trafelate, chiedono dove sia l’ingresso di questa fantomatica “II galleria”, è una cosa che non ha prezzo. Così come non ha prezzo il non dover subire all’uscita dei concerti quella vera e propria tortura che è il giudizio ad alta voce degli abbonati storici: sordi come delle campane fin dalla tenera età, si sono da sempre arrogati il diritto di far sapere al mondo che loro sì hanno capito il senso ultimo della musica, qualunque essa sia. A MiTo tutto questo non avviene: proprio perché per la maggior parte delle persone si tratta di una prima volta, o semplicemente perché non sono abbonati storici, il senso del rispetto li porta ad uscire dalla sala con sorrisi felici e qualche commento bisbigliato. Quegli stessi sorrisi che ho visto domenica pomeriggio all’uscita dall’abbazia di Chiaravalle, quando dopo un’ora e mezza di Josquin senza intervallo, moltissimi sono apparsi come galvanizzati: non era un concerto facile, né tantomeno scontato; Clemencic ha portato il suo storico ensemble ad ipnotizzare un pubblico che ha gremito la navata di Chiaravalle (venendoci apposta: mezzi pubblici scarsini, di domenica pomeriggio, poi) con ascolto attento e disincantato. Niente facce estatiche, ma tanti pensieri fra quelle note.
Tanto allegro casino, invece, ieri sera per il concerto di Lang Lang, Semyon Bychkov e la Filarmonica della Scala al Palasharp: qui, 8000 persone sono riuscite miracolosamente nell’intento di ascoltare in silenzio tutto il Concerto per pianoforte di Caikovskij, tributando a Lang Lang ovazioni e fans in delirio come nei concerti rock. E non importa se l’arena ha un’acustica penosa, se si applaude dopo il primo movimento (anche della Sinfonia n° 6), se il viavai di gente crea qualche rumore di fondo, se Lang Lang sia uno dei pianisti più sopravvalutati del pianeta. È bello esserci per dimostrare che Milano È una città musicale, a dispetto di quello che pensano i nostri governanti. Sul tutto, ascoltare Caikovskij sorseggiando una birra appena spillata, non ha prezzo.
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