Bergamo Jazz 2 | L'attualità e le "sciure"

Giovanni Guidi, Hermeto Pascoal e un gigantesco Peter Evans

Recensione
jazz
La seconda giornata del Festival di Bergamo 2013 ha un solo, unico, indiscusso trionfatore, che risponde al nome di Peter Evans, il trombettista americano che Rava, dopo averne sentito molto parlare, ha il merito di avere chiamato finalmente a una ribalta di rilievo. Che poi, a dirla tutta, questa è una stortura tutta italiana, dei nostri Festival coi programmi in fotocopia e con una propensione al rischio prossima allo zero. Perchè che Peter Evans sia uno dei trombettisti più straordinari che ci siano in circolazione è noto a mezzo mondo, ma in Italia lo si è ascoltato ancora col contagocce, magari in piccole rassegne.

E invece l'artista che il pubblico dell'Auditorium di Piazza della Libertà si è trovato di fronte nel pomeriggio (in questa collocazione vagamente elitaria, lontana dalle “sciure” del Donizetti) è un vero gigante. Non solo dal punto di vista tecnico – laddove è evidente a chiunque che Evans è dotato di mezzi strabilianti – ma anche da quello espressivo, che nella formula del trio trova tantissime traiettorie originali. Con lui ci sono John Hébert al contrabbasso e Kassa Overall alla batteria, artisti che condividono con Evans una naturale propensione all'avventura sonora.

Non c'è stato infatti attimo, nell'intenso concerto di Evans, in cui il trombettista e i suoi compagni non abbiano dato al pubblico il senso profondo dell'esplorazione, in senso timbrico, ritmico, dinamico, melodico. La tromba di Evans spazia da un'irruenta pronuncia post-bop all'applicazione più attenta di tecniche non convenzionali, dall'uso della respirazione circolare all'emissione di sonorità squittenti o vicine all'elettronica. Moltissimi i momenti da ricordare, dall'ipnotico bordone sostenuto da tromba e contrabbasso alle continue punteggiature che i tre si rimpallano dentro architetture – generate da temi sghembi e mai pacificati – che non mostrano mai momenti di cedimento, per giungere al conciso e scoppiettante bis. Il pubblico presente applaude convinto e anche Rava, dietro le quinte, ha parole di grande entusiasmo per il suo più giovane collega.



Immagine rimossa.
Peter Evans

Peccato, dicevamo, che tutto questo accada lontano (non tanto in linea d’aria, quanto concettualmente), dal Teatro Donizetti, che si presenta bello pieno anche in questa giornata.
Qualche discorso origliato qui e là nel foyer del teatro (dove una signora ricordava all’amica quante “bidonate” gli aveva riservato la curatela di Uri Caine, spingendola quasi a non rinnovare l’abbonamento!) sembra avvalorare questa dicotomia tra i concerti del pomeriggio (più stimolanti e attuali) e quelli della sera che, anche laddove stimolanti e attuali, puntano prevalentemente a non mettere troppo in crisi le certezze del pubblico.
Un dualismo sulla carta difficile da conciliare, se il criterio di valutazione resta solo esclusivamente quello del pallottoliere dei biglietti venduti, ma sulla cui possibile strategicità culturale andrebbe forse fatta qualche riflessione ulteriore.

Tornando alla serata, bello il concerto del quintetto di Giovanni Guidi. Il giovane pianista umbro si muove in modo elegante tra un lirismo asciutto e quasi filigranato e una coralità innodica che porta a densi momenti di insieme. È una musica che definirei “fluttuante”, che sembra a volte indugiare sui confini della libertà, che esplora dettagli, ma resta incantata e incatenata dalla forza espressiva del canto. Nel fare questo, cosa anche piuttosto rischiosa in alcuni momenti, specie quelli più lenti e amniotici, Guidi può contare su voci precise come quelle del sax di Dan Kinzelman e della tromba di Shane Endsley, ma soprattutto sul fondamentale apporto della coppia ritmica formata da Thomas Morgan al basso e da Gerald Cleaver alla batteria, musicisti di sensibilità straordinaria, in grado di ridefinire continuamente il gioco ritmico e dinamico della musica. Guidi suona in modo accurato, prediligendo traiettorie semplici nella parte centrale della tastiera, ma non disdegnando accessi più convulsi, attento anche a straniare con piccole interpunzioni inquiete i momenti più lirici.

Abbastanza indigeribile invece il set del non più giovane Hermeto Pascoal, come già si sapeva dalle sue ultime apparizioni nella penisola. Il polistrumentista brasiliano propone una sorta di fusion “tropical-freak” dalla sonorità molto datata e a tratti confusa, affidando i lunghi temi all’unisono tra il sax soprano e la deleteria presenza della voce della più giovane compagna Aline Morena. Una musica che se trae ispirazione, come sempre in Pascoal, dai suoni della natura, ce li restituisce con modalità davvero deludenti, che alternano senza una vera necessità momenti di strumentismo latin-muscolare che speravamo dimenticati ai consueti siparietti in cui il nostro trae suoni dagli oggetti più disparati. In altri momenti forse mi avrebbe fatto anche tenerezza, ma complice la stanchezza non riesco davvero a reggere questa celebrazione un po’ grottesca di un musicista che certamente ha avuto nei decenni passati un ruolo importante e una precisa originalità, ma che se oggi continua a essere ricordato prevalentemente per la partecipazione a Live/Evil di Miles Davis (anno di grazia 1970, pubblicazione 1971), vuol dire che qualche magia non deve avere funzionato del tutto.

Vado a dormire, domani il Festival è atteso da una giornata intensa, con ben 5 concerti!

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