Beatrice Rana inizia il suo periodo di “artista in residence” a Santa Cecilia

La giovane pianista ha offerto insieme ad Antonio Pappano una bellissima interpretazione del Concerto di Clara Wieck Schumann

Beatrice Rana e Antonio Pappano (Foto Musacchio e Ianniello)
Beatrice Rana e Antonio Pappano (Foto Musacchio e Ianniello)
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Beatrice Rana
03 Novembre 2022 - 05 Novembre 2022

Nella stagione appena iniziata Beatrice Rana è “artista in residence” all’Accademia di Santa Cecilia, con cui ha da sempre un rapporto speciale, perché a Santa Cecilia si è prima perfezionata con Benedetto Lupo e ha poi sviluppato un eccellente rapporto artistico con Antonio Pappano: con lui e con l’orchestra ceciliana ha inciso il suo primo disco ed è andata in tournée in mezzo mondo, inoltre hanno ovviamente suonato più volte insieme a Roma.

Per iniziare la sua residenza la giovane pianista pugliese ha scelto un pezzo mai eseguito prima a Santa Cecilia, il Concerto in la minore per pianoforte e orchestra  di Clara Wieck, non ancora diventata Frau Schumann. All’epoca della composizione Clara e Robert già si conoscevano ma tra loro non c’era quel grande amore romantico che avrebbe segnato le loro vite. Clara era infatti poco più di una bambina quando scrisse questo Concerto: lo iniziò a quattordici anni, nel 1833, e lo portò a termine nel 1835. Un caso di precocità impressionante, da far impallidire Mendelssohn, considerato il più precoce tra i grandi musicisti romantici, che a quell’età compose anch’egli dei Concerti, ma molto più semplici di quello di Clara, che ci lascia stupefatti innanzitutto per il coraggio con cui, pur partendo dalla forma classica, la modifica e la rielabora con grande libertà e anche con la sicurezza e la padronanza di una musicista esperta. Per esempio, il primo movimento non si conclude con la simmetrica ripetizione della parte iniziale, ma con una libera cadenza, ampia e poderosa, dopo di che il clima si rasserena e sfocia in un bellissimo Adagio: potrebbe sembrare che sia iniziato il secondo movimento, invece è la conclusione del primo. L’ascoltatore professionale nota questi strappi alla regola, l’ascoltatore meno esperto forse no, ma comunque avverte la diversità, non sa più bene in che punto si trova e cosa deve aspettarsi. Questa libertà di Clara dai modelli e questa sua non rispondenza alle aspettative sono indubbiamente positive, tengono ben desta l’attenzione, acuiscono l’attesa di quel che deve seguire e che non si riesce a prevedere.

Più regolare è il movimento lento, una Romanza,  mentre nuove sorprese riserva il terzo movimento, anche perché non era stato concepito come finale del Concerto ma come un pezzo a sé stante. Il tutto è arricchito da un’armonia molto audace per quegli anni. La ragazza insomma aveva idee nuove e molto personali e le applicava senza timidezza alcuna. Il pianoforte ha passaggi tecnicamente impervi (Clara era già un’ottima pianista e sarebbe diventata una delle più grandi virtuose della sua epoca) ma non si lascia sviare dal virtuosismo fine a sé stesso, al contrario ha anche momenti molto semplici e poetici, sebbene nel complesso le melodie non siano particolarmente affascinanti. L’orchestra non si limita ad accompagnare, è coprotagonista, ma Clara non aveva esperienza dell’orchestrazione, che infatti è un po’ banale. Sono questi i punti deboli della giovane Clara. Ma a parziale smentita di quanto appena detto sta la melodia del violoncello nel movimento centrale, messa in bellissima luce da Diego Romano, con cui Beatrice Rana ha voluto condividere gli applausi (ed anche i fiori) ricevuti dal pubblico. Quanto a lei, non solo ha risolto le notevoli difficoltà tecniche con una sicurezza che faceva sembrare tutto facile ma ha anche colto la sottile e giovanile poesia di quest’opera di una musicista che stava appena sbocciando (sappiamo perché poi questo fiore non sia potuto pienamente sbocciare). Come bis la Rana ha scelto (ci riferiamo alla replica di sabato) una trascrizione pianistica de Il cigno  dal Carnevale degli animali  di Saint-Saëns, facendolo scivolare sull’acqua con un’eleganza unita a una grazia veramente speciali.

Antonio Pappano non ha preso certamente sottogamba la musica della giovanissima e prodigiosa Clara Wieck Schumann e ha curato attentamente la parte orchestrale, dandole il giusto rilievo. Prima e dopo questo raro Concerto ha diretto due brani notissimi e frequentemente eseguiti. Prima la Sinfonia n. 8 “Incompiuta”  di Franz Schubert: splendido l’inizio con il lugubre mormorio dei violoncelli a cui si sovrappone il leggerissimo, volante, elfico tema di violini e viole, e poi tutto si trasforma e diventa tragico sotto l’impulso fatale e la forza cupa degli ottoni. Però Pappano non sempre mantiene le promesse iniziali nello sviluppo, particolarmente nelle transizioni, mentre è sempre ispirato dal ritorno dei meravigliosi temi principali. Invece raggiunge un equilibrio pressoché ideale nel secondo (e ultimo) movimento.

Poi la Sinfonia n. 2 in do maggiore op. 61 di Robert Schumann. Il primo movimento è veloce, perfino convulso. Pappano sembra incitare i suoi musicisti, ma senza curare troppo le dinamiche e i rapporti tra le sezioni dell’orchestra: ne scapitano sia la bellezza e l’espressività dei temi sia la ricerca di un equilibrio classico, che è evidente in questa sinfonia (a differenza delle altre di Schumann). Quest’energia motoria si scatena ancor più nello Scherzo,  dove è più giustificata, e nell’ Allegro molto vivace  finale, che è effettivamente trascinante, con una coda  entusiasmante, che scatena gli applausi del pubblico. Ma restano i dubbi su quest’interpretazione sbilanciata su tempi molto veloci e sonorità molto forti, trascurando quei pensieri più raccolti e quelle visioni ombrose che Schumann introduce in modo sommesso ma che non sono affatto meno importanti. Solo nell’Adagio espressivo  Pappano cerca un suono più trattenute ed espressive (molto bene l’oboe di Francesco Di Rosa nel suo solo,  cui Schumann affida un tema che toglie il respiro per la sua delicata sensibilità e semplicità). Non si dovrebbe mai dimenticare che Schumann scrisse di aver composto questa sinfonia in un stato di dolore e sofferenza fisica e spirituale e che pensava che questa sua condizione non potesse non essere avvertita dall’ascoltatore; e concludeva: “In ogni caso mi ricorda i miei giorni bui”.

All’inizio del concerto Pappano ha ricordato con poche e commosse parole Andrea Alpestre, violista dell’orchestra prematuramente scomparso, e non ha chiesto al pubblico un minuto di silenzio ma un applauso per questo musicista dal “suono dolcissimo”. E l’applauso sembrava non voler finir mai, manifestando tutto l’affetto del pubblico per Andrea Alpestre e indirettamente per tutti i musicisti dell’orchestra, anche quelli che, suonando come lui delle file, non hanno mai modo di venire in primo piano ma sono fondamentali per la qualità complessiva. Ci associamo con tutto il cuore a questi applausi.

 

 

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Ad Amsterdam Romeo Castellucci mette in scena “Le lacrime di Eros” su un’antologia di musiche del tardo rinascimento scelte da Raphaël Pichon per l’ensemble Pygmalion 

classica

Madrid: Haendel al Teatro Real

classica

A Roma, prima con i complessi di Santa Cecilia, poi con Vokalensemble Kölner Dom e Concerto Köln