Alle Terme di Caracalla Turandot è un videogioco
Francesco Micheli ha creato uno spettacolo completamente nuovo sullo stesso progetto scenografico di Fuksas già utilizzato per Tosca
Dopo Tosca ecco Turandot: per celebrare il centesimo anniversario della scomparsa di Puccini si è scelto di rappresentare le sue due opere più spettacolari, com’è giusto che sia, non soltanto perché sono le più adatte alle Terme di Caracalla ma anche perché Tosca è la sua opera ‘romana’ e perché nel 2024 sono passati 100 anni da quando Puccini lavorò a Turandot, che in quest’occasione è stata eseguita così come il compositore la lasciò il 29 novembre 1924, quando il suo cuore cessò di battere. Ci si è dunque fermati alla morte di Liù, risparmiandoci quel duettone d’amore trionfante (messo insieme da Alfano, che a dire il vero sapeva fare di meglio) così lontano dalle corde più autentiche di Puccini, che infatti ebbe mesi di tempo per comporlo ma non riuscì a trovare una soluzione che lo soddisfacesse.
La compagnia di canto messa insieme dall’Opera prometteva bene, ma non ha mantenuto le promesse. Com’era accaduto con la Tosca, una parte della responsabilità è stata dell’amplificazione eccessiva, sebbene questa volta sia stata usata in modo meno scriteriato. Infatti Maria Grazia Schiavo è riuscita nonostante tutto a dare a Liù inflessioni delicate, che giungevano al cuore dell’ascoltatore, per quanto attenuate dalla distanza. Invece Luciano Ganci, che avrebbe una delle più belle e meglio impostate voci tenorili di oggi, ha deciso di puntare per Calaf (debuttava nel ruolo: non so se sia stata una decisione saggia farlo a Caracalla) su un canto stentoreo dall’inizio alla fine. La sua prima frase “Padre! Mio padre!” non comunicava un minimo di emozione ma faceva anzi temere che si sarebbe avventato a prendere a cazzotti Alessio Cacciamani, che era appunto il vecchio Timur, già di per sé barcollante sia nella finzione scenica che nella realtà vocale. E cosi proseguiva, facendo mostra di un notevole volume (certamente l’amplificazione l’aiutava) e anche di un bel timbro in tutta la gamma (e in questo l’amplificazione l’ostacolava). Ma tutto era uguale e piatto, sempre a pieni polmoni, senza lasciar trapelare alcuna emozione e senza trasmettere nulla.
Abbiamo dunque ascoltato un principe di ghiaccio e non soltanto una principessa di ghiaccio, che questa volta era impersonata da Angela Meade. Turandot è un ruolo insolito per una belcantista come lei (ma c’è l’autorevole precedente di Joan Sutherland) e ci si sarebbe aspettato un minimo di morbidezza e duttilità, perché non bisogna dimenticare che il ghiaccio si scioglie. La voce dal volume possente e dagli acuti solidissimi della soprano americana questa volta era stranamente priva di corpo, quasi stridula: è meglio che resti a Bellini, a Donizetti e al primo Verdi. Ping, Pang e Pong erano rispettivamente Haris Andrianos, Marcello Nardis e Marco Miglietta, che presi singolarmente andavano piuttosto bene, ma non andavano bene insieme per quanto concerne tempo e intonazione. Apprezzabile il Mandarino di Mattia Rossi, un giovane del progetto “Fabbrica” Young Artist Program dell’Opera di Roma.
Direzione piuttosto fracassona di Donato Renzetti, che si è messo d’impegno a smentire la modernità novecentista dell’orchestra di Turandot, facendo pensare che fosse invece una brutta copia di Mascagni. L’orchestra non poteva far altro che suonare bene nel modo sbagliato che il direttore le ha chiesto. Eccellenti il coro preparato dal Ciro Visco e la Scuola di Canto Corale dell’Opera.
La sorpresa positiva veniva dalla parte visiva. Dopo essere riusciti a far funzionare bene il progetto scenico di Massimiliano e Doriana Fuksas, il regista Francesco Micheli e il drammaturgo Alberto Mattioli hanno fatto anche meglio in Turandot e non perché quella astratta scenografia di un bianco niveo potesse adattarsi ad una “principessa di gelo” meglio che ad un’appassionata primadonna qual è Tosca. Le cose stanno diversamente. Hanno pensato che quella giovane donna che vive rinchiusa nella sua fredda stanza, aliena dalla realtà e senza alcun sentimento se non un misto di paura e di odio verso gli altri esseri umani, sarebbe oggi una hikikomori, come in Giappone vengono definiti quei giovani che si isolano dal mondo reale e si relazionano solo con il computer. Non è affatto gratuita l’idea di ambientare la favola di Gozzi fuori dal mondo e dal tempo (così si immaginava la Cina nel Settecento) ma in una versione moderna, fatta di luci, colori, immagini, proiezioni sempre cangianti che ricordano - molto liberamente - un videogioco, cioè un mondo che esiste solo su uno schermo e può disgregarsi e ricomporsi in pochi istanti, apparendo in modi mille volte diversi e sempre favolosi. La regia di Micheli era ben calcolata, generalmente misurata ed essenziale, ma invece vivacissima quando entrano in scena Ping, Pang e Pong. Determinante l’apporto dei collaboratori Giada Masi per i costumi, Mattia Agatiello per i movimenti coreografici, Alessandro Carlotti per le luci e soprattutto quello di Luca Scarzella, Michele Innocenti e Matteo Castiglioni per i fondamentali video.
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