«Fin dall’inizio – racconta Vittorio Nocenzi – abbiamo pensato che, dopo la perdita di Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese, per riprendere la propria strada artistica il Banco doveva essere più credibile che mai, cioè coerente con i propri valori di riferimento, con scelte basate sull'autenticità di ispirazione e del racconto artistico, non fare il verso a sé stesso ma cercare il modo per rinnovarsi restando comunque riconoscibile. Non certo una cosa facile».
«Fin dall’inizio abbiamo pensato che, dopo la perdita di Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese, per riprendere la propria strada artistica il Banco doveva essere più credibile che mai».
«Due parole chiave ci hanno aiutato: ispirazione e credibilità, ci potevamo riuscire. È così che mi è venuta l’idea di tentare una cosa ancora mai sperimentata: una trilogia di album, una grande opera concepita in tre porzioni e dedicata al racconto della vita umana, ogni album con un’identità ben definita. Transiberiana ha rappresentato una chiara metafora del viaggio della vita, Orlando: le forme dell’amore la celebrazione del sentimento umano più potente. Storie invisibili, ora, racconta storie di persone normali, i cui nomi non saranno mai sui libri di storia, ai quali nessuno dedicherà mai un monumento, ma che rappresentano le pagine più autentiche, più rappresentative di coloro che hanno vissuto fino ad oggi, e costituiranno in futuro la parte più importante della storia umana».
Così presenta Storie Invisibili Vittorio Nocenzi, il nuovo disco appena uscito con una copertina immediatamente riconoscibile per chi segue da mezzo secolo e oltre il Banco: un salvadanaio, il loro simbolo, che però a un'occhiata più attenta si rivela essere sia il buco di una serratura, sia una lente d'ingrandimento puntata su un campo di grano, con un uomo chino sulle spighe. Una cosa salta immediatamente all’orecchio, ascoltando le tracce di Storie Invisibili: il brano più lungo oltrepassa di poco i cinque minuti, dunque la scelta è stata quella di racchiudere nel breve spazio della canzone i racconti – epitome del disco, pur non rinunciando a raffinati cambi di tempo e misurati voli di tastiere.
Continua Nocenzi: «Abbiamo focalizzato una serie di paletti di riferimento ai quali riferirci per realizzare l’intero processo creativo. Ho pensato a delle foto Polaroid, le foto che colgono l’attimo, non costruite e non alla classiche foto da studio, con le luci teatrali e la posa. La forma canzone si avvicina alla foto Polaroid, è chiara e quasi istantanea».
C’è un brano nel nuovo disco, "Il pittore", dedicato a Caravaggio, che sembra quasi evocare la voce di Francesco, nella prova di Tony D’Alessio...
«Io credo che a Francesco sarebbe piaciuto tutto l’album e la struttura della narrazione. Per quanto riguarda la prova vocale di D’Alessio posso dire che ne sono particolarmente felice, Tony è in continua crescita artistica. Ha potenza, ma anche una molteplicità di colori e timbri vocali adatti ai contenuti delle parole, e secondo una vera e propria drammaturgia teatrale. Una cosa assai complessa e che sanno fare solo i grandi».
Un’altra canzone importante del disco è "L’ultimo moro dell'Ahlambra" in cui a parlare è un arabo cacciato a forza dall’Andalusia nella cosiddetta “Reconquista” del 1492.
«Abbiamo voluto raccontare quando i cristiani spagnoli cacciarono dalla Spagna meridionale tutti i musulmani e gli ebrei, e amce gli zingari. Gli arabi vivevano in Andalusia da ottocento anni, avevano una continuità, e proprio in base queste considerazioni abbiamo ci è venuto in mente quanto sta succedendo in Palestina. In realtà tute e dodici le “storie invisibili” sono metafora della contemporaneità: "Studenti" è dedicata alle occupazioni universitarie dei giovani del nostro tempo, che sicuramente si riallacciano a quelle avvenute nei Sessanta e Settanta, le quali, a loro volta, celebrano le esperienze utopistiche della Comune di Parigi. "Il mietitore" è dedicato al popolo dei trattori: il lavoro di chi produce quanto consumiamo sulle nostre tavole non è mai ripagato adeguatamente, perché poi intervengono i ricarichi dei mediatori e dei rivenditori, e così il primo anello è il più debole e meno riconosciuto».
«Il senso delle Storie invisibili, insomma, è cercare di rappresentare un passaggio dal particolare all’universale: ogni storia particolare racconta con parole proprie molto di quanto ci accade intorno e ci riguarda».
La critica anglosassone è stata molto lusinghiera con la nuova avventura del Banco. Siete già stati in giro con questa formazione?
«Quattro album di inediti negli ultimi otto anni è stato un impegno che ci ha assorbiti completamente. Dopo il tour italiano di Storie invisibili sicuramente terremo anche diversi concerti in Europa, ma solo dove io posso arrivare in treno, l’unica cosa negativa che mi ha lasciato la mia disavventura sanitaria del 2015, l’emorragia cerebrale. Mi spiace soprattutto per i numerosi fan giapponesi del Banco che, pure di averci con loro, mi avevano organizzato il viaggio in Giappone via terra, in treno da Mosca a Vladivostock, poi in nave fino in Giappone, poi di nuovo in treno fino a Tokyo. Avrei preso la Transiberiana davvero! Non è stato possibile, perché il tempo impiegato per il viaggio sarebbe stato davvero troppo».
Nel brano "Capo Horn" quale è stato il punto di riferimento, i romanzi di Francisco Coloane?
«Più una summa delle grandi storie di marineria in genere, direi, dall’Odissea alle avventure di Corto Maltese e fino ad arrivare a Crêuza de mä. Capo Horn è il simbolo dell’ignoto e del pericolo che si affronta spesso con ogni viaggio, quando si lascia la nostra comfort zone. Noi siamo figli dell'Ulisse dantesco del “folle volo”, siamo i suoi compagni fatti “per seguir virtute e canoscenza”».