Ute Lemper, viaggiatrice nel tempo
La tappa torinese per i sessant’anni della cantante
L’anno scorso Ute Lemper ha compiuto sessant’anni e li sta festeggiando portando un concerto in giro per il mondo, intitolato Time Traveler, compendio di pezzi storici che hanno fatto di lei la “nouvelle Marlene”, come scrisse a suo tempo un giornale francese; e ciò potrebbe aprire un capitolo sul perché abbiamo bisogno dell’illusione di rivivere il passato nel presente, ma richiudiamolo subito.
Il concerto fa una tappa a Torino, inserita nella stagione dell’Unione Musicale. La Lemper entra in scena al Conservatorio con un medley che è un concentrato di vitalità, grinta, passione. Cantando, presenta al pubblico i tre musicisti che l’accompagneranno nel viaggio: Vana Gierig (pianoforte), Giuseppe Bassi (contrabbasso), Mimmo Campanale (batteria). La sillaba «Ich» con cui esordisce, soffiandola in un grumo a fior di labbra, racchiude mondi sepolti dal tempo. La time traveler irradia il suo carisma così tanto che il sistema di amplificazione ne risente. Scrocchi fortissimi le impediscono di proseguire: lei guarda smarrita il tecnico alla console sul palco e lui stringe le spalle nella sua felpa verde. Ha inizio una performance parallela del tecnico in felpa e di una nuova dramatis persona che fa il suo ingresso: il tecnico con la barba. Maneggia qui, maneggia là, dopo circa quindici minuti il concerto può riprendere. (Alla console però rimane solo il barbetta; del felpetta non c’è più traccia: chissà che punizione gli tocca, povero).
La Ute ricomincia professionalmente da dove si è interrotta. Comincia a raccontare ricordi e suggestioni alternandoli con canzoni, alcune sue e altre provenienti da vari ambienti culturali del secolo scorso, tutte più o meno riarrangiate in uno stile jazz. All that Jazz non può mancare, come anche il duo Brecht-Weill, cui la Lemper è comunemente associata, e del quale canta la Salomon Song e la Ballata di Mackie Messer, poco straniando e molto immedesimandosi: in ciò è l’antitesi di Lotte Lenya, ma ne guadagna in charme sensuale. Non a caso, il punctum del concerto è il repertorio di chansons della Francia di Edith Piaf, Jacques Prévert, Yves Montand, Jacques Brel, nel quale il timbro bronzeo della Lemper passa dal tingere di luce crepuscolare La vie en rose al graffiare di roca disperazione il crescendo di Amsterdam di Brel. (Nel frattempo, muovendosi tra palco e platea, il barbetta cerca di aggiustare il riverbero che sta coprendo cotanta voce: ci riuscirà infine alla Vie en rose, aggiungendovi ulteriore trasfigurazione poetica).
Non del tutto convincente la Ute in Napule è di Pino Daniele: pronuncia a parte, le zone gravi di quella scrittura vocale non offorno pane alla sua così caratteristica voce, pur se arricchite da vocalizzi e fioriture. (Rientra però sul palco il felpetta, che credevamo scomparso, affiancandosi al barbetta per godersi da vicino l’omaggio a Napoli).
Si prosegue col momento Marlene Dietrich, da Just a Gigolo a Lola, dove la Lemper sfoggia tutto quel che può fare col suo straordinario strumento, dai passaggi acuti agli inabissamenti nel grave, dai lunghi legati all’imitazione di una tromba, sempre intonatissima. (Il felpetta, a cui evidentemente Marlene non interessa, esce di scena un’altra volta).
Il racconto delle memorie termina a New York, dove ora la diva vive con la sua famiglia. Capiamo che tutte le culture ripercorse dal time travel erano filtrate dai locali chic di Manhattan; gli arrangiamenti in stile “jazz contemporaneo” evocavano precisamente l’ethos di Woody Allen. E ritorniamo al nostro bisogno di illusione del passato, a Café Society, a Midnight in Paris. Ute Lemper, ancora in ottima forma vocale, ce lo appaga. E dunque, applausi calorosi per lei e per i musicisti, proseguiti anche dopo il bis, Caruso di Dalla. (Un saluto anche a Barbetta & Felpetta: è giusto che ogni tanto gli eroi silenziosi si prendano la scena, come hanno fatto).
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