Il cappello di paglia di Firenze a Genova 17 anni dopo
Nuova versione – e pieno successo – per un allestimento con la regia di Michieletto
Il titolo scenico più fortunato di Rota torna in scena al Carlo Felice di Genova in una nuova versione dell’allestimento che un allora trentaduenne Damiano Michieletto aveva proposto nel teatro genovese nel 2007, anno della sua affermazione con un Premio Abbiati (per altro titolo). L’impianto scenico, curato da Paolo Fantin, sembra essere rimasto immutato, e nella sua ingegnosa e calibrata gestione fa molto nella riuscita – più che confermata – dello spettacolo accanto alle brillanti soluzioni del regista: una grande pedana inclinata e girevole, articolabile in più ambienti grazie a pareti movibili, è il teatro centrale delle varie peripezie dei personaggi, in testa lo sposo di giornata Fadinard che, proprio il giorno del matrimonio, deve andare a caccia di un introvabile cappello alla moda divorato dal suo cavallo a una moglie in libera uscita con l’amante (ne va dell’onore…). Sulla sghembaggine e la roteazione dello spazio principale si proiettano la follia e l’equilibrismo degli eventi, prima che a un simulacro d’ordine ristabilito – e a un imprevedibile risolversi della ricerca – si approdi con il penultimo giro di scena, interamente praticabile e orientata frontalmente-simmetricamente (ma non è l’ultima rotazione…).
Su una tramatura già perfettamente congegnata nel libretto (tessuta anche mediante esilaranti tormentoni, come i minacciosi quanto velleitari sbotti del futuro suocero, o le scorribande invasive – ma infine esauste a mo’ di rotta militare – degli invitati), Rota innesta un elegante costellazione di musiche al quadrato, per le quali la memoria pesca dal melodramma italiano – comico, drammatico lirico o patetico – all’operetta e alla canzonetta da rivista, fino a una forma-sonata in progress per un’ouverture premonitrice di figure tematiche ricorrenti. Il virtuosismo parodico non è, ovviamente, fine a se stesso, ma riveste una funzionalità musicoteatrale valorizzata dall’essere il testo il non-plus-ultra di una drammaturgia interpersonale: un’attitudine certo neoclassica, quella del Cappello di paglia, spostata più verso la sorridente nostalgia che verso la problematica distanza, prima che anche Rota – nei titoli successivi – s’interrogasse con cautela sulla possibilità di nuove drammaturgie.
In un’opera del genere, è indispensabile – per l’eccellenza del risultato interpretativo – un lavoro di squadra di una compagnia di ottimi cantanti-attori, solida anche nelle parti in apparenza secondarie (essenziali comunque nell’accumulare spunti e situazioni) e spiccata nei personaggi-chiave, soprattutto in quelli più continuativamente presenti in palcoscenico: condizione pienamente soddisfatte dal cast, che ci sentiamo perciò di nominare in rigoroso ordine alfabetico: Giulia Bolcato, Paolo Bordogna, Marika Colasanto, Sonia Ganassi, Gianluca Moro, Blagoj Nacoski, Didier Pieri, Franco Rios Castro, Benedetta Torre; teniamo a parte solo il Fadinard di Marco Ciaponi e il Nonancourt di Nicola Ulivieri, autori di una prova veramente ragguardevole, nonché il violinista Minardi di Federico Mazzucco per l’irresistibile accento genovese della sua battuta.
Giampaolo Bisanti dirige con cura e fluidità, e con la giusta attenzione nell’evidenziare i contrasti tra effervescente estroversione e ombreggiatura sentimentale sin dall’ouverture, senza forzare il suono neppure nella loro deformata sintesi grottesca; sono del tutto irrilevanti i leggeri e circoscritti distacchi di fase col palcoscenico, anche perché la massa che vi opera – il bravissimo Coro preparato da Claudio Marino Moretti – nel suo non perde un colpo.
Applausi felici, generosi e meritati di un pubblico consistente, rivolti pure al delizioso e disciplinato cagnolino della scena della festa dalla Baronessa.
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