Parker e Prati, un labirinto di ombre
A ParmaJazz Frontiere il rodato duo fra il sax Evan Parker e l'elettronica di Walter Prati
Ventinovesima edizione per il festival jazz emiliano e ritorno nel capoluogo ducale per il sassofonista inglese Evan Parker dopo l’esibizione del 2017 con Barre Phillips al Teatro Farnese.
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Stavolta il duo è con l’elettronica di Walter Prati, con cui Parker dialoga da anni (Pulse è del 1990, la collaborazione nell’Electro-Acoustic Ensemble suggellata da memorabili lavori per ECM comincia qualche anno dopo).
La materia sonora è densa, sfuggente, lievissima: fughe, agguati, appostamenti, segnali, labirinti, pendii scoscesi, veglia, minaccia; conversazioni in una lingua indicibile e familiare, fitta e sfuggente, gravida di brume. Quasi un idioma sorvegliato e pre-alfabetico, preistorico: il glorioso mistero del suono nel suo dipanarsi.
Carillon che suonano da un altrove intimo e lontanissimo, rarefazioni, rivelazioni. Movimenti non tracciabili che lasciano orme latte di sogno, o bave di fantasma, fossili, frammenti di memoria.
L’attacco del soprano è subito in proverbiale respirazione circolare: si instaura in un attimo un mood austero, rarefatto, tutto un brulicare di frequenze e vertigini, aria rarefatta, concentrazione zen, occhi chiuso, è proprio lo stesso Parker che abbiamo già sentito molte altre volte, ma la magia continua a ripetersi grazie a una formula che distilla poesia e stupore serbando intatti tutti i suoi grammi di meraviglia.
Prati entra con calma con l’elettronica: suoni allusivi, a volte rielaborazioni del sax masticati e risputati senza fretta, con un approccio sempre equilibrato. Il racconto a due voci procede per enigmi e paradossi, come un lungo periodo di acclimatamento ad altezze tibetane o un’escursione in sottomondi acquatici dove ci imbattiamo in forme zoologiche abissali: qualcosa che somiglia al suono che fa la luce quando rompe il buio del mare profondo.
Il secondo movimento è aperto dai punti di domanda elettronici di Prati, tra synth sinuosi e suoni metamorfici. Non c’è molta escursione termica in questa musica, il clima resta costantemente al di sotto di una certa temperatura, si mantiene lontano dal torrido. Capita che il suono del soprano diventi quasi quello di un organo in una cattedrale sott’acqua o in una nava affondata.
A tratti l’atmosfera si fa lynchiana, spesso procediamo a tentoni tra vaghissime brume avant-ambient da cui emergono fantasmi di presenze, o epifanie che si vorrebbe durassero un’ora e invece spariscono subito, come fuochi fatui.
Il concerto è la plastica dimostrazione dell’ottimo affiatamento tra i due musicisti, che si conoscono e sanno muoversi nel labirinto di ombre da loro stessi creato: in chiusura una citazione dolphiana con “Something Sweet, Something Tender”, da “Out To Lunch” prova per l’ennesima volta che nell’arte di Parker non si annidano solo ipnosi e disciplina del respiro circolare, ma anche tensioni più larghe, lirismo e devozione per i testi sacri.
La rassegna prosegue fino al 25 novembre, i dettagli qui.
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