Theodora la guerrigliera
Madrid: Haendel al Teatro Real
Sembra incredibile che dalla struttura drammaturgica di un oratorio barocco, come Theodora di Haendel, si possa impostare un impianto registico che coerentemente sviluppi una vicenda parallela a quella raccontata nel libretto originale. Come se una narrazione, meno vincolata ad un impianto teatrale definito, ad una successione schematica di arie e recitativi, più intrisa di interiorità e di contenuti meditativi, come quella di un oratorio, potesse reggere, in maniera più congeniale di un’opera tradizionale, ad un processo di attualizzazione e di trasposizione secondo la tendenza propria del Regietheather.
Katie Mitchell, in questa coproduzione, del Teatro Real di Madrid con il Covent Garden di Londra, dell’oratorio handeliano, riesce a rendere plausibile, un’interpretazione in chiave femminista della vicenda del martirio di una santa cristiana. Qui Theodora, la martire condannata a prostituirsi per rifiutarsi di adorare gli dei pagani, si trasforma in una impavida guerrigliera, dove i cristiani sono una setta - così come erano considerati nell’antica Roma - e dove il potere romano è in mano ad una sorta di congrega di gangster e prosseneti, con un’azione che si svolge negli ambienti di un’ambasciata. Scorrono sulla scena, alternativamente, gli interni dei vari locali della vicenda: le cucine, il salone, i velluti rossi di una camera e di un bordello con tanto di pali e ballerine di pole dance, fino ad una cella frigorifera.
Durante i diversi momenti strumentali, le arie, i cori e i recitativi, l’azione è inarrestabile e serrata, tutti i componenti del cast, figuranti e coro, sono in perpetuo movimento, anche con coordinati effetti collettivi di slow-motion. La dinamica sembra essere quella di un thriller, dove nel finale i due predestinati al martirio, la protagonista con l’amato Dydimus, dentro una cella frigorifera, vengono salvati dai compagni e riescono ad avere la meglio sugli oppressori. Travolgente l’happy end che, rispetto alla versione originale, cambia totalmente le sorti dei due, con una narrazione che si viene così delineando con tutto il senso di un riscatto e l’accentuazione di elementi fortemente rivendicativi.
Se questo tipo di impostazione fa sì che, dal principio alla fine, ci sia un completo ed efficace coinvolgimento nella vicenda teatrale, può anche essere che a volte la musica svolga un ruolo di sfondo di un’azione che sta tra il filmico e il coreografico e sicuramente la fruizione musicale non sarebbe la stessa di quella di un concerto oratoriale; ma tant’è, la logica di una sua teatralizzazione ha fatto sì che effettivamente ci fosse un’uditorio fermamente partecipe.
La resa musicale di una compagine di strumenti d’epoca, sotto la direzione di Ivor Bolton, con lo stesso direttore che a momenti si alternava al cembalo, è stata impeccabile. Così di livello è stata la prestazione del coro del Real diretto da José Luis Basso.
Julia Bullock è la protagonista, presente in ogni momento con una partecipazione attorale estremamente efficace, vocalmente non sempre controlla l’emissione e il volume sonoro, forse anche perché impegnata in un costante lavoro di azione, conflitti e violenze; da segnalare tuttavia la sua delicata ed efficace interpretazione dell’aria “With darkness deep” nel secondo atto. Da rilevare sul piano vocale quindi una Joyce di Donato, nel ruolo di Irene, che ha brillato per il colore caldo, ricco di sfumature e sicurezza nell’emissione, pregevole e applaudissimo il suo “Lord, to thee”; così come il controtenore Iestin Davies, agile ed espressivo, nel ruolo di Didymus, anch’egli tra i più applauditi.
Novità di questo allestimento nel quale si avvisa, come nelle serie Netflix, che la produzione “mostra scene violente e contiene temi di terrorismo, molestie e sfruttamento sessuale”, la presenza di una coordinatrice dell’intimità, Ita O’Brien, a tutela delle relazioni i protagonisti nelle scene di contenuto sessuale o violente; novità di cui i teatri dovranno farsi carico in futuro?
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