Premio Parodi 2024: chiamiamola canzone cosmopolita
Racconto dal Premio Parodi 2024, sempre meno "world music" ma sempre più riconoscibile
Il 2024 è stato l’anno della chitarra al Premio Andrea Parodi. Dei nove concorrenti, otto ne suonavano una acustica o classica. Le elettriche, per quest’anno, risultano non pervenute, così come l’elettronica – che pure nelle ultime edizioni era stata protagonista di alcune delle scoperte migliori, su tutti i campani Osso Sacro, ritornati quest’anno sul palco del Teatro Massimo di Cagliari e apparsi molto più maturi e solidi (merito anche, senz’altro, delle reti attivate dal Premio negli scorsi dodici mesi).
Se otto erano i cantanti-chitarristi, in realtà, le chitarre erano in realtà anche di più, e si è usciti dalle tre serate con un po’ di pesantezza per arrangiamenti a tratti un po’ monotoni. Ineccepibile allora la vittoria finale della catalana Sandra Bautista.
Cantautrice di Barcellona, la sua “Cartografia” era per distacco la canzone migliore – e, ironicamente, è pure dedicata al suo strumento d’elezione: «Busco on estàs amagada a la geografia de la guitarra», «cerco dove sei nascosta nella geografia della chitarra» canta Bautista…
Se nella prima serata, in solo, la sua era già apparsa come la più solida fra le proposte, nella seconda e terza, con l’aggiunta di percussioni e basso, la canzone è decollata. Lo confermano la vittoria anche del Premio della critica, assegnato dai giornalisti, oltre varie menzioni (musica, arrangiamento, giovani in sala e Premio Bianca d’Aponte International).
Nota per i concorrenti futuri: quella di Sandra Bautista era anche una delle pochissime canzoni in gara a essere vivace, divertente e divertita, in un’edizione dominata da brani tristi, lenti, intimisti e che si prendevano molto (troppo?) sul serio. Quando ci si gioca un Premio sulla base di un set di 5-10 minuti, bisogna fare bene i conti…
Bautista ha mostrato il suo valore anche alle prese con il brano di Andrea Parodi, che nella seconda serata è spesso la cartina di tornasole per capire l’effettiva levatura di musicisti che, sì, vengono conosciuti nel corso di tre giorni, ma che talvolta – vuoi per il poco tempo a disposizione, vuoi per problemi tecnici, vuoi per contingenze varie – non riescono a esprimersi al meglio. La sua versione di “Pandela”, in effetti, ha acceso il teatro e mostrato una personalità matura anche sul fronte interpretativo.
Dietro Teresa Bautista, gli altri concorrenti hanno mostrato un buon livello medio, in linea con il Premio Parodi negli ultimi anni.
Da menzionare in particolare Valdi, colombiano trapianto a Barcellona accompagnato dalle cantautrici catalane Albaluz e Martha Kaoba (era anche l’anno delle cantautrici catalane). Bella la sua “Desamuleto” (che vale al trio la menzione per la migliore interpretazione), irresistibile la versione della filastrocca “Tiribi taraba”, che riceve il premio (a pari merito con il siciliano Cico Messina) per la miglior cover di Andrea Parodi.
Lo stesso Messina presentava un brano in siciliano, che stava su grazie a una idea melodica molto bella e alla sua voce, notevolissima, ma che – accompagnato dalla sola chitarra, bloccata su un giro sempre uguale – non riusciva veramente a decollare. Peccato, ma il progetto sembra molto interessante.
Molto bella anche “Sunsûr” del giovane cantautore friulano Alvise Nodale, fra echi popolari e canzone d’autore (premio al miglior testo): bella la voce, ben scritta la canzone, efficace l'accompagnamento minimale di chitarra.
Gabo Naas presentava invece un brano spigoloso e sincopato, ricco di rimandi ai repertori popolari da ballo della sua Argentina: “Prienda, zamba y chacarera” gli è valsa il premio della giuria internazionale.
Fra i non premiati, la cantante e violoncellista ungherese (ma basata in Friuli) Andrea Bitai ha presentato, cantando in friulano, “Cheste no è la me cjase”. Il brano è interessante, così come il groove costruito in dialogo con percussioni e tabla. L’uso della loop station per tutto il pezzo, come spesso succede, rende però il tutto un po’ meccanico.
Cristina Cafiero aveva una buona canzone in napoletano, “Chiammame”, come Carlo Vannini: la sua “A tammurriata d’ ‘a munnezza” era, in realtà, un interessante mix fra tammurriata e beguine. Chiara D’Auria cantava invece nella versione di dialetto gallo-italico di Tito, in Lucania.
Come vedete, si è parlato molto di canzoni, molto di cantautori e molto di chitarre. Dov’è la world music, a cui il Premio Parodi è dedicato?
Come vedete, si è parlato molto di canzoni, molto di cantautori e molto di chitarre. Dov’è la world music, a cui il Premio Parodi è dedicato?
È la domanda che ci facciamo – nel plurale, non maiestatis, sono inclusi gli organizzatori e molti degli operatori presenti – da oltre un decennio. E forse continuare a farsela è più importante che dare una risposta, perché è segno di curiosità, di dubbio, di riflessione su quello che si sta facendo e sul perché lo si sta facendo.
“World music” è ormai etichetta usurata, e siamo quasi stufi di ribadire l’ovvio. Per di più, quello che passa per il Parodi non è uno specchio veritiero del famigerato “circuito della world music”, un ircocervo in cui convivono da sempre le cose più disparate, nutrito da pochi e consolidati festival, fiere (da Womex in giù) ed etichette.
Di quella strana bestia, o meglio delle sue incarnazioni più internazionali, il Premio Parodi non è in realtà mai stato rappresentativo, ed è ora di smettere di pretendere che lo sia. Al contrario il Premio si è costruito una sua identità nel corso degli anni, al netto di anomalie localizzate (quale, credo, possa essere considerato lo strapotere delle chitarre di quest’anno).
Può piacere o non piacere, ma facendo un passo indietro e osservando lo sviluppo del Premio Parodi sul lungo periodo emergono chiari gli orientamenti della direzione artistica di Elena Ledda. Sono indicazioni non esplicite, ma che agiscono al livello del primo filtro (quali brani vengono selezionati fra quelli presentati – oltre trecento quest’anno) e dell’ultimo (ovvero, come la giuria valuta quello che ascolta sul palco), ma che alla lunga condizionano anche chi si presenta per essere selezionato, e che cosa presenta. L’idea stessa di premiare, in fondo, una canzone – che viene ripetuta per tre sere – va in questa direzione, così come la richiesta di interpretare un brano dal repertorio di Andrea Parodi.
Insomma, l’attenzione alla forma-canzone e alle belle voci ha sempre prevalso sulla necessità di una componente “world” o “global”. E francamente va bene così. Perché voler essere qualcosa che non si è, quando si è giunti ad avere una propria identità?
La potremmo chiamare canzone cosmopolita.
La potremmo chiamare canzone cosmopolita. Non è contaminata, perché germoglia direttamente in un contesto meticcio, come del resto tutta la musica. Non è apolide, perché non è senza patria, ma piuttosto ma rivendica il mondo intero come casa propria.
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