Toni Servillo al Lingotto e l’amore (corrisposto) per Puccini

Torino: Puccini, Puccini, che cosa vuoi da me?

Puccini, Puccini, che cosa vuoi da me? (Foto Gianluca Platania)
Puccini, Puccini, che cosa vuoi da me? (Foto Gianluca Platania)
Recensione
classica
Auditorium Lingotto «Giovanni Agnelli»
Puccini, Puccini, che cosa vuoi da me?
19 Settembre 2024

La rassegna MITO di quest’anno prosegue con un’altra contaminazione di linguaggi: stavolta, nel concerto intitolato «Puccini, Puccini, che cosa vuoi da me?», all’Auditorium del Lingotto (19 settembre), la musica ha interagito, da un lato, con la parola recitata, in una creazione drammaturgica di Giuseppe Montesano; dall’altro, con la tradizione teatrale del “grande attore”: nel nostro caso, Toni Servillo.

 

È noto che il grande attore, e in particolare il divo, porta sempre con sé, nei nuovi personaggi, quelli incarnati precedentemente, anche senza volerlo. Quando Servillo entra in scena, dopo che l’orchestra, i cantanti e la direttrice si sono posizionati, il suo personaggio è già, nel vestito, nel tono di voce, l’esponente del cosiddetto ceto medio riflessivo. Borghese in giacca e pantaloni bianchi, si dichiara innamorato, ricambiato, di una ragazza molto più giovane di lui, con cui ama parlare («parlare è un modo di fare l’amore») di Baudelaire e Coltrane. Avrebbe già del ridicolo se non fosse che oltretutto spara giudizi per sentito dire. Ha orecchiato da qualche parte che Puccini sarebbe melenso e sentimentalistico e perciò dichiara di detestarlo, senza essersi mai messo ad ascoltarlo davvero. Asserisce di preferirgli la Seconda Scuola di Vienna ma non sembra avere i mezzi per capirla, e perciò ammette di distrarsi quando ascolta le quattro ore di integrale weberniana. Ma a lui non importa: le Avanguardie lo fanno «sentire giovane», che è la cosa che conta di più. Da Jep Gambardella a Silvio Berlusconi, sono tanti i personaggi servilliani che si affastellano in questo fesso senza nome.

 

La ragazza, invece, ama Puccini. Pertanto il fesso innamorato, che ormai arriva a farci pietà e nel quale, se siamo onesti, possiamo tutti riconoscere tratti di noi stessi, vince le sue resistenze e si mette ad ascoltare Puccini. Attacca così l’orchestra (I Pomeriggi Musicali, diretta da Gianna Fratta) e cantano così i cantanti (Maria Tomassi, soprano; Max Jota, tenore) arie e duetti da La bohème, Tosca, Madama Butterfly, Manon Lescaut. È una folgorazione dopo l’altra: tra questo e quel brano l’uomo descrive le sensazioni che la musica gli evoca, le sinestesie culturali che gli suscita (il finale di Madama Butterfly va con la Terra desolata di Eliot; quello di Manon Lescaut con La ginestra di Leopardi), e tutto si mescola col pensiero del suo amore.

 

Servillo è più musicale della musica: ogni frase da lui recitata è tornita nel tono, nelle inflessioni, nelle pause e nei ritmi come solo un grande attore che ama profondamente la musica è in grado di fare. Quando poi il monologo cita la phoné, il pensiero dello spettatore è inevitabilmente portato a fare confronti: e reggono. La compressione ritmica congiunta al crescendo di volume quando il personaggio/Servillo cita senza prender fiato interi versi da Amore e morte di Leopardi è Musica travolgente tanto quanto gli analoghi luoghi di Carmelo Bene, come il Coro dell’atto III di Adelchi. E Puccini? Fratta, duole constatarlo, lo dirige con un fraseggio piuttosto spigoloso, scarso respiro nelle aperture di frase, un timbro orchestrale non particolarmente coeso e un volume che in molti (troppi) momenti copre le voci dei cantanti. 

 

Al momento degli applausi, una lezione su cos’è la classe. Per tre o quattro volte Fratta ha invitato con grandi gesti Servillo a salire con lei sul podio direttoriale. Per tre o quattro volte Servillo ha declinato l’invito con un piccolo cenno e un sorriso.

                                                                                                                       

 

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