Tra le diverse iniziative che compongono “Arcipelaghi” – la nuova programmazione del Reggio Parma Festival 2024 che propone cinque differenti declinazioni di un concetto allargato di cultura – troviamo Derby Elettrico, progetto di improvvisazione musicale elettro-acustica rivolto a giovani musicisti italiani.
Si tratta di un insolito format di concerto – una sorta di contesa o, appunto, di derby – concretizzato attraverso un percorso di workshop intensivo che si è svolto nello scorso mese di luglio sotto la guida di tre conduttori di consolidata quanto differente esperienza: Silvia Bolognesi (contrabbassista, compositrice e arrangiatrice, direttrice di Fonterossa Open Orchestra, docente di Contrabbasso e Musica d'insieme all’Accademia Siena Jazz e di Contrabbasso Jazz presso il Conservatorio Statale di Palermo), Francesco Giomi (compositore, performer e regista del suono, docente di Composizione Musicale Elettroacustica al Conservatorio di Musica di Bologna e direttore del centro di ricerca, produzione e didattica musicale Tempo Reale) e Walter Prati (compositore e musicista orientato all’interazione fra strumenti musicali tradizionali e nuovi strumenti elettronici, docente di Composizione musicale elettroacustica al Conservatorio di Como e di Tecniche di improvvisazione musicale al Conservatorio di Vicenza).
Bolognesi, Giomi e Prati hanno dunque selezionato, tra le quarantasei richieste di adesione pervenute, i quindici partecipanti – cinque per ogni squadra – con cui affrontare il percorso che li porterà – dopo gli incontri svolti nel mese di luglio tra Parma e Reggio Emilia – ai due concerti conclusivi previsti il 13 e 15 dicembre nelle due città emiliane. Nell’attesa della fase conclusiva di questa iniziativa, abbiamo rivolto alcune domande ai tre capisquadra di questa insolita competizione.
Derby Elettrico appare un progetto alquanto originale, che mette in relazione artisti di diversa estrazione ed esperienza – in veste di mentori – con giovani musicisti nei panni di allievi, li uni e gli altri uniti in una squadra che si prepara a una partita destinata in partenza a finire in parità, trasformando così la competizione in rito (secondo il Claude Lévi-Strauss de Il pensiero selvaggio, fonte citata dall’ideatore Roberto Fabbi, come vedremo più avanti…): in questa prospettiva, perché ha deciso di accettare il ruolo di guida o, se vogliamo, di “caposquadra”?
SILVIA BOLOGNESI: «Ho accettato il ruolo di caposquadra perché sono stata attratta proprio l'originalità progettuale: la possibilità di lavorare in modo laboratoriale con dei musicisti preparati come quelli che poi appunto mi sono ritrovata nel gruppo e anche la possibilità di confrontarsi con l’idea di una sperimentazione che si sarebbe poi completata nell'incontro/scontro dei tre organici. Già personalmente sono interessata a varie forme di improvvisazione o di ricerca dell'improvvisazione, pertanto questa mi sembrava un'occasione ulteriore per approfondire e scoprire modalità di interazione nuove. Questo è il motivo principale per cui ho accettato di partecipare a Derby elettrico come caposquadra».
FRANCESCO GIOMI: «Mettere a confronto esperienze diverse nel campo dell’improvvisazione elettroacustica, stabilendo condizioni di lavoro simili è una sfida di per sé significativa, che guarda a un’idea di improvvisazione a me molto cara: quella dell’accoglienza, della diversità, dell’integrazione tra pensiero acustico e pensiero elettronico ma, in fin dei conti anche dello “stare insieme” divertendosi e facendo musica. Poter “guidare” una vera e propria band di improvvisazione – di solito lavoro con gruppi più grandi come conductor oppure più piccoli come performer – è quindi una possibilità espressiva stimolante, resa possibile da una istituzione che ha saputo guardare a ciò che di nuovo e interessante offre oggi la scena della musica dal vivo praticata da centinaia di giovani».
WALTER PRATI: «L’unica ragione d'essere dell'esperienza è condividerla. Dati gli anni di pratica "improvvisativa", i differenti territori musicali attraversati – e che ancora attraverso – e i percorsi intrapresi, mi sembrerebbe un atto di egoismo puro non condividere queste esperienze: questo il motivo per il quale cerco di essere disponibile e presente in ogni dove si coinvolgano giovani musicisti. In questa particolare occasione c'è qualcosa in più: da un lato una competizione che riprende il suo ruolo – per la musica assai più congeniale – di rito, dall'altra il confronto con prassi improvvisative differenti che i diversi caposquadra hanno nel proprio portato musicale. Si confrontano così attitudini, idee musicali, modalità di pensiero talvolta molto differenti legate solamente dal fatto che l’aspetto estemporaneo della musica, la sua composizione istantanea, la decisione del singolo musicista sono il punto fondamentale della creazione di gruppo. È una pratica di consapevolezza dove non c'è "errore" che non possa diventare inizio di una nuova idea, non c'è sbaglio che non possa venire considerato una nuova opportunità. Un principio che, se applicato generalmente nella quotidianità, potrebbe indirizzare verso una gestione sociale della comunità umana decisamente migliore. Essere caposquadra può, per me, avere solo questo significato: proporre un indirizzo "vissuto" ad altri musicisti, giovani in questo caso».
Chi sono e che background hanno i componenti della sua squadra?
BOLOGNESI: «I componenti del mio quintetto sono Milena Punzi (violoncello, elettronica), Alberto Brutti (contrabbasso, elettronica), Leonardo Vita (contrabbasso, elettronica), Cristiano Pomante (vibrafono, elettronica) e Margherita Parenti (batteria). Sono cinque musicisti molto preparati, creativi, entusiasti; ognuno di loro ha una splendida energia, con dei background anche molto diversi tra loro, che rende tutto molto più interessante. Ma in questa breve residenza che abbiamo avuto a luglio a Reggio Emilia è venuta fuori subito, dopo poche ore passate insieme, una bellissima sintonia che nei giorni successivi si è resa più vivida, più forte, più profonda, sia per gli ascolti che facevamo insieme, la condivisione di tanta musica proprio grazie al fatto che venivamo da ambientazioni diverse, sia soprattutto perché abbiamo utilizzato questi giorni per sperimentare le più svariate possibilità di interazione, che io in qualche modo essendo la più grande e d'esperienza ho a loro introdotto e ho a loro richiesto di utilizzarle come se ognuno di noi fosse appunto il caposquadra. Diciamo che il quintetto più me non ha un vero e proprio leader, ma ognuno può prendere la direzione durante la performance. I membri della squadra sono cinque musicisti preparatissimi, molto sensibili, con una grandissima creatività e soprattutto con grande attenzione all’ascolto».
GIOMI: «La maggioranza di loro viene da una “scuola” elettronica molto avanzata e quindi con un taglio tecnologico estremamente spinto: anche laddove si usi lo strumento acustico (le percussioni di Andrea Fabris e il sassofono di Biagio Cavallo per esempio) le caratteristiche di estensione e aumentazione del dispositivo sono evidenti e spiccate, il che conferisce alla band un sound molto aggressivo sul fronte elettronico, garantito dai set analogico-digitali di Abo Carcassi e Dino Piccinno. Questo è quello su cui lavoro da quasi due decenni, ovvero la possibilità di veicolare un sound elettronico che allo stesso tempo è potente e polifonico, ma che può costantemente mutare in un suono delicato, raffinato e poetico. Questi performer sembrano incarnare bene questa idea e ad arricchire tutto questo c’è un quinto elemento, la tromba “quasi” acustica di Sofia Weck che, provenendo da altri ambiti linguistici ed espressivi, porta un contributo di diversità espressiva assai utile allo spirito della band».
PRATI: «Per avere la possibilità di poter creare una "qualsiasi" musica dobbiamo avere più strumenti possibili nella loro diversità e nel loro modo di essere suonati; con questa prerogativa la squadra è stata composta. Gianmarco Canato, fagottista ed elettronico ha messo a punto, nel suo percorso di studi accademici, il mondo della musica classica e dell'elettronica, sviluppando parallelamente una pratica improvvisativa. Francesca Fantini, saxofonista; proviene anche lei dal mondo "classico" ma ha cercato altri spazi creativi altrove, dopo il biennio al Conservatorio si è diplomata a Maastricht e poi un master di free improvisation a Vilius e, recentemente, ha vinto una borsa di dottorato all'Università Roma 3 / Conservatorio di Brescia. Alessandro Gambato, musicista eclettico, ottimo chitarrista, elettronico, interessato alla relazione tra pubblico e musica, alle dinamiche sociali che la musica, nelle sue diverse forme ed estetiche, crea; una visione ampia del mondo sonoro. Riccardo Tesorini è un musicista elettronico la cui esperienza passa attraverso la produzione musicale e del suono per il cinema, le installazioni sonore, gruppi di improvvisazione, parallelamente a percorsi in ambito accademico. Infine, per Federica Zuddas cito testualmente la descrizione tratta da un suo profilo: "Cantante di origine sarda, creo delle loop e ci improvviso sopra. Saltuariamente accompagnata da una chitarra Neo Soul, RnB, Mix di cose”. Sono provenienze differenti, decisamente, che permettono un lavoro sul suono nella sua totalità e obbligano a non escludere nessuna possibilità estetica o creativa. Il che implica un enorme consapevolezza personale e un sensibilissimo senso dell’ascolto».
Elemento centrale di questa competizione appare l’improvvisazione: qual è il concetto di improvvisazione al quale lei si ispira per la sua musica come compositore e/o interprete? Ed è il medesimo che ha condiviso con la squadra che guida oppure con questi giovani musicisti ha scelto di adottare un altro approccio?
BOLOGNESI: «L'idea di ispirarsi all'improvvisazione come compositori estesa a tutti i componenti dell'ensemble, prendendo informazioni e rielaborandole per scrivere collettivamente sul momento: con la squadra ho condiviso questo approccio lavorando sull'improvvisazione radicale, ma anche inserendo alcuni elementi della conduction, pratica che impiego usualmente, ma con organici più grandi. Abbiamo ad esempio introdotto un nuovo segno che significa "comando io" e un altro che annulla la guida del leader momentaneo. Oltre ciò, abbiamo anche aggiunto dei cartelli che possono avere significati stilistici o di ambientazione. Quindi si alterneranno momenti di lavoro alla pari e momenti in cui i membri potranno richiedere di gestire il gruppo: ognuno di loro è un compositore e si comporta come tale. Era un po' la mia idea di partenza quando ho visto le loro audizioni, e quando poi mi sono trovata di persona ad interagire dal vivo con loro mi sono convinta che era il metodo più adatto a questa formazione. Tutti gli elementi che vengono presentati sul momento vengono utilizzati per scrivere una composizione estemporanea. È questa l'intenzione con cui ci presenteremo al Derby, interagendo anche con gli altri due gruppi».
GIOMI: «Il gruppo, fin dalla prima giornata di lavoro si è subito trovato immerso in un ambito improvvisativo piuttosto definito e condiviso, del resto il mio approccio prevede sempre dei regolari momenti di riflessione, utili al miglioramento del training. È un ambito di improvvisazione libera molto aperto, che attinge dalla migliore tradizione di costruzione timbrico-morfologica del suono e alle capacità evocative e di indagine sullo spazio, sintetizzando dinamicamente il rapporto tra struttura istantanea collettiva ed espressione individuale, sempre con una consapevolezza storico-analitica e una gestione del fare musica che cerca di essere priva di atteggiamenti superficiali. Tutto questo riflette bene anche in senso generale il mio lavoro di performer e improvvisatore, sebbene in questi ultimi anni abbia anche indagato campi diversi dell’improvvisazione e dell’indeterminazione musicale, interpretando opere di Cage, Bussotti, Mayr, in cui l’approccio può anche essere assai diverso da quello del Derby Elettrico, ma in cui lo spirito di ricerca sonora in cui credo è comunque costantemente presente».
PRATI: «Se negli ambiti tradizionalmente legati ad aspetti improvvisativi il termine "improvvisazione" è parte integrante di quella specifica prassi, uscendo da quei specifici mondi incontriamo oggi molte difficoltà a individuare le caratteristiche che determinano una specifica "improvvisazione". Un po' come parlare oggi di "musica elettronica"; diverse tipologie di interlocutori daranno differenti risposte. Oggi, ogni genere musicale da spazio a un proprio modello di improvvisazione, modello che rispetta regole o convenzioni riferite al genere musicale di appartenenza. Nel 1992 Derek Baley (uno dei fondatori della scena radicale inglese degli anni ’60) pubblica il suo libro Improvisation: Its Nature and Practice, nel quale ripercorre e definisce le modalità dell'improvvisazione radicale attuata dagli anni ’60 in avanti, definendo quella modalità improvvisativa come "non idiomatica", cioè non referente ad alcuna estetica formalizzata; si staccava dal jazz (ambito musicale che dava maggiore spazio all'improvvisazione), dal rock, dal blues, dalle musiche colte, da quelle di tradizione popolare; era altro, era ciò che non si poteva prevedere, Tipico il suo modo di delineare formalmente le sue improvvisazioni, puntava una sveglia e smetteva quando la svegli suonava. Oggi la sensibilità musicale è molto differente, molte delle esperienze "non idiomatiche" si sono, a loro volta trasformate in "idiomi" e posseggono una loro specifica modalità estetica, pensiamo alla musica dello stesso Baley, di Evan Parker, di Peter Brotzman, di Barry Guy ad esempio».
«In questi ultimi anni – prosegue Prati – la strada che ho intrapreso in ambito improvvisato, sia personalmente sia nei laboratori o durante le lezioni, è la via della più completa libertà. Non c'è ostacolo per l'uso di melodie, di ritmi, per forme o idiomi più o meno riconoscibili, non ciò sono regole e sistemi di conduzione. C'è solo un grande obbligo individuale: l'ascolto e la consapevolezza che il gesto musicale di un singolo determinerà l'avvenimento successivo del gruppo, grande o piccolo che sia. È come un grande dialogo dove ognuno ha diritto di parola, dove ognuno ha il dovere di ascoltare ma soprattutto noi tutti abbiamo lo scopo di far capire al pubblico quale è il nostro messaggio, in qualunque modalità lo si stia esprimendo. Ciò è possibile sono se siamo convinti che il nostro gesto musicale abbia un valore e sia "necessario" e che non sia certamente "più necessario" di quello espresso da un altro componente del gruppo, se siamo consapevoli che la pausa o il silenzio abbiano la stessa importanza del suono. Questi pensieri di fondo conducono, poi, a un concetto altrettanto basilare: il gruppo è uno strumento e come tale si deve esprimere con una sincronicità necessaria per non risultare una entità composta di singoli musicisti. Nel percorso che stiamo costruendo per il "Derby elettrico" non ci sono solisti. Siamo un solo strumento, unico nel suo genere, in grado di esprimere qualunque cosa che riguardi il suono nel suo complesso timbrico e strutturale, in modo sempre differente. Avuta la responsabilità di creare una "momento di esperienza collettiva" non ho potuto fare altro che seguire questa impostazione».
Per completare il quadro su questa originale iniziativa abbiamo infine rivolto qualche domanda anche a Roberto Fabbi, tra i referenti per la Produzione e Programmazione artistica della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia e ideatore di Derby Elettrico.
Quasi tutti i giochi prevedono un arbitro e la mia impressione è che in Derby Elettrico l’arbitro sia lei… o mi sbaglio?
«Nel Derby Elettrico non ci sono punizioni né cambi, nessuno si fa male, o bara, le regole sono autogestite, e soprattutto non è previsto un vincitore. Dunque a che servirebbe un arbitro? Mi affascinava l’idea di un gioco in cui non si vince ma è avvincente. Poi un’amica antropologa mi segnala Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss, laddove si riferisce di una tribù della Nuova Guinea che, adottato il calcio, svolge tante partite quante sono necessarie perché il numero di quelle vinte e di quelle perse risulti il medesimo. Il pareggio come risultato obbligato significa, spiega Lévi-Strauss, trattare il gioco come un rito. Qui funziona al contrario: un concerto è un rito, ma lo tratteremo come un gioco. Idearlo e coordinarlo significa forse stare fra il game developer e l'officiante».
Oggi il panorama musicale – sia dal punto di vista stilistico sia da quello performativo – si nutre di mille possibilità espressive e il concetto di “improvvisazione” le amplifica – possiamo dire – all’infinito: non le pare che Derby Elettrico rischi di rivelarsi una sorta di salto nel vuoto (o nel troppo pieno…)?
«Nell’attuale babele quel rischio c'è sempre, ma i rischi vanno presi. L'obiettivo del progetto è mettere sul palco i tre gruppi in compresenza, se in disputa serrata o in pacato confronto, o in un mix di sfumature, questo non si può sapere prima. Ciascun gruppo ha lavorato in luglio indipendentemente e l'assemblaggio avverrà in dicembre, poco prima del concerto. L'improvvisazione è antica quanto la musica e l'odierno impulso innovativo, anche radicale, è dato da diversi fattori: è collettivo (Bach o Schubert improvvisavano in solo); e anzi, nel Derby, è un collettivo di collettivi; è tecnologico, con dispositivi elettronici in tempo reale, oltre a strumenti e voci. Ciò e altro ancora implica spirito collaborativo, calibrato coordinamento, tensione di autoconsapevolezza, reciproco ascolto; ovvero capacità di autocollocarsi in un microcosmo fluido, sociale non meno che sonoro. Insomma, l'improvvisazione non si improvvisa. Filosofie e pratiche improvvisative erano a luglio già ben delineate e personali. Bolognesi, Giomi e Prati con le rispettive squadre hanno posto promettenti basi di differenziazione».
Per una realtà come la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia – e, più in generale, per una manifestazione come il Reggio Parma Festival – quali sono gli obiettivi di un progetto – e di un investimento di risorse economiche, umane e creative – come quello rappresentato da Derby Elettrico?
«Dopo i ritratti d'artista sviluppati lungo un anno intero – Yuval Avital nel 2022, Maguy Marin nel 2023 – RPF ha concepito un progetto del tutto diverso: "Arcipelaghi", composto di varie "isole" fra cui il Derby, e di cui Gradus è la maggiore. Si è trattato in entrambi i casi di raccogliere artisti under 35 (altissima la risposta ai bandi, per quantità e qualità), sottoporli a fasi formative, per poi approdare alla produzione, in un arco di respiro biennale. Se il Derby è rivolto a musicisti, Gradus raccoglie tutte le figure autoriali del teatro: registi, compositori, scenografi, coreografi. Accompagnare e dare nutrimento, largo e non solo specialistico, alla creatività dei partecipanti, grazie al contatto con maestri e personalità autorevoli, fino a concretizzarla da parte dei tre teatri/festival nelle due città: fomentare nuove forze per il teatro a venire, ecco l’intento in estrema sintesi».
L’appuntamento è quindi per i due concerti conclusivi di Derby Elettrico, previsti il 13 dicembre a Reggio Emilia e il 15 dicembre a Parma: quasi una sorta di insolita alternativa “elettrica” ai più tradizionali concerti di Natale.